Lettera aperta di Giulio Canella a padre Agostino Gemelli (02)

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[Archivio Storico dell'Università Cattolica di Milano, Fondo Miscellanea, cart. 43, sottofasc. 347, plico indirizzato a padre Gemelli]

Faccio tre premesse:
1°) Sono costretto ad uscire dal silenzio, perché provocato da Lei.
2°) Vi fu un tempo in cui noi ci davamo del "tu", e fu Ella a richiedere questo reciproco atto d'amicizia: cui risposi lietamente, aderendo con animo grato e commosso. Ma nel 1927, dopo una lacuna di circa 18 anni, avvennero tra me e Lei certi fatti, che proprio non permettono più l'uso del pronome di seconda persona.
3°) Devo dilungarmi: a) per dimostrarLe che sono vivo, e che Ella, circa la mia scomparsa il 25 Nov. 1916 durante un combattimento, fece delle affermazioni senza fondamento e senza dare la minima dimostrazione; b) perché devo esporre il mio antico pensiero filosofico, affine di mettere in chiaro certe Sue incongruenze; c) per far rilevare l'origine e la natura di un grave dissidio insorto 25 anni or sono fra Lei e me; d) per dimostrarLe che Ella si comportò in modo poco edificante, nei miei riguardi e verso la giustizia e la verità.
 
La "Rivista di filosofia neo-scolastica" ha compiuto il 25° anno di sua fondazione.
Coll'animo amareggiato dalla triste e non ancora terminata mia odissea – sebbene col pensiero fisso ai disegni Divini e informato ai Divini archetipi –, io, vero padre di codesta Rivista, ho lasciato passare nel silenzio tale data. Ed avrei continuato a tacere, se dalla lontana patria: dalla quale Ella contribuì, sia pure indirettamente, a farmi forzatamente esulare, non mi fosse giunta l'eco di affermazioni, che Ella si permise di fare in tale occasione. (Di Padre G. Busnelli, il cui articolo su "Civiltà Cattolica", Quaderno 2023, è ottimo sotto tutti gli altri aspetti, non occorre ch'io m'interessi: la responsabilità risale a Lei).
Vedremo in seguito, come vennero da Lei frustrate e "la precisione" e "la limpidezza" mia "nell'esposizione del pensiero filosofico", e come "FU USURPATO" il nome mio: soffermiamoci all'affermazione "caduto eroicamente per la patria in terra straniera nella grande guerra".
Mi permetta di domandarLe: Prima di fare un'affermazione così grave, ha Ella compiuto le opportune indagini e le necessarie ricerche? Ha Ella fatto l'analisi di tutti gli elementi: come s'addice ad un filosofo neo-scolastico? Domande ingenue: le risposte non me le darà Lei. La daranno però i fatti EVIDENTI, che ora vado esponendo, obbiettivamente:
1° – In un N° del 1° semestre 1917 (dopo circa sei mesi dalla mia scomparsa) della Rivista di filosofia, che Ella dirigeva, comparve la notizia della mia dispersione. Diceva tra l'altro: "Annunciamo agli amici che si dà per DISPERSO il Capitano Prof. Giulio Canella"; "si hanno DATI per sperare che egli si PRIGIONIERO…"; "chissà in quali sofferenze vive…".
2° – Il Cappellano del mio Reggimento dichiarò: Noi al Reggimento lo si dà come disperso… È convinzione mia personale e degli UFFICIALI e dei SOLDATI che sia VERAMNTE PRIGIONIERO. Se fosse morto LO SI SAREBBE TROVATO, perché furono SUBITO spedite MOLTE pattuglie alla sua ricerca. Quello che È CERTO si è che FU VISTO LEGGERMENTE FERITO alla faccia a dare ordini. Poi SOPRAGGIUNSERO in forza i Bulgari, i quali fecero prigionieri parecchi dei nostri. (Noti che io presento una cicatrice nella parte superiore dell'orbita dell'occhio sinistro, che fu riconosciuta da un soldato che fu con me in prigionia, e che lo stesso Prof. Carrara, Perito, definì "prodotta da corpo che ha sfiorato come saetta", e che fu constatata di data equivalente).
3° – In data 2 Dicembre – sei giorni dopo il combattimento –, il cognato d'un mio ex alunno, scrivendo alla propria moglie. "Dirai a tuo fratello Giuseppe che il suo Professore Cap. Canella RIMASE PRIGIONIERO dei Bulgari giorni fa".
4° – Il Capitano Carlo Baldi afferma: "Nella notte del 25 Nov. 1916 feci accurate ricerche dei morti e feriti sul campo, ma non si trovò il Cap. Canella. Mia convinzione e quella di TUTTO il Battaglione, fu che fosse stato raccolto ferito e fatto prigioniero. Interrogai gli scampati e TUTTI furono concordi in questo convincimento. Circa due mesi dopo il Colonnello ci comunicò che il Cap. Canella si TROVAVA PRIGIONIERO".
5° – Il Comandante del reggimento, a richiesta d'un mio fratello, rispose tra l'altro: "Ebbi alle mie dipendenze suo fratello, al quale mi legava una particolare simpatia. Il 25 Nov. 1916, dopo la presa di Monastir, in un'operazione che compiè il reggimento nella zona Cerna-Stena, la 9° Compagnia, comandata brillantemente da suo fratello, ebbe molte perdite. Dagli INTERROGATORI FATTI SUBITO AI FERITI RACCOLTI, fra le nostre file, chi diceva di averlo VISTO FERITO, chi RACCOLTO PRIGIONIERO. Feci SUBITO fare una ricognizione sul campo dell'azione – furono trovati dei militari nostri impossibilitati a muoversi –, ma di suo fratello NESSUNA traccia". Ultimamente trovai per combinazione un generale bulgaro, il quale, dopo avermi detto che nel Novembre 1916 difendeva colla sua Brigata la linea montana Peristeri Cernostena, mi soggiunse che rammentava di aver visto un capitano italiano ferito, colla barba (che mi dissero essere anche Professore) mentre lo trasportavano negli ospedali delle retrovie.
6° – Il suddetto generale Bulgaro, POPOFF, fece le uguali dichiarazioni al Conte Avv. Colonnello Sagramoso, appartenente ad una commissione di ricerche.
7° – Il Capitano Cevre dichiarò: "Il giorno del fatto d'arma, io mi trovava in continuità di fronte a Quota 2227 sopra il lago di Presba, e ricordo che TUTTI I SOLDATI SCAMPATI della 9° Compagnia dal Cap. Canella erano CONCORDI nel dichiarare che il loro capitano rimasto ferito, continuava a combattere, e che fu di sorpresa catturato e sollevato dai bulgari. Nel Febbraio 1917 mi trovavo a Col di Vrada sul nodo della Cerna, e ricordo benissimo la lieta notizia che ci portò il Cappellano del Reggimento, che fu accolta con gioia da tutti; questa: Il Cap. Canella VIVEVA in un Ospedale di Sofia. E ricordo che faceva vedere una fotografia comparsa su un giornale bulgaro, dove si RICONOSCEVA BENISSIMO il Capitano Canella"
8° – Nel Maggio 1917 l'On. Avv. Coris telegrafava a Verona: "Avendo avuto CONFERMA per l'amico Giulio lietissimo RISULTATO avverto avrò altre informazioni a dare".
9° – Monsignor Tagliaferro, che fu con me sul fronte Trentino e poi in Macedonia, vide la mia fotografia assieme ad altri prigionieri.
10° – Il Cappellano militare dell'Ospedale 0107 in Salonicco, udì da ex prigionieri italiani provenienti dalla Bulgaria, che il Capitano Canella era prigioniero.
11° – Nel Giugno 1917 il sergente Carlo Cotti di Verona dichiarò: "… Il Cap. Canella NON È MORTO, STAVA RELATIVAMENTE BENE, ERA FUORI PERICOLO, ma NON era in grado di dare notizie di sé". Nel Luglio stesso anno il Cotti, di ritorno dal fronte orientale, di passaggio a Verona dichiarò: "POSSO ASSICURARE che il Cap. Canella È VIVO, ma non può comunicare con nessuno".
Il 24 Febbraio 1927, alla notizia che io ero stato identificato a Collegno, il Prof. Dr. Billo si mise subito in comunicazione col Cotti, pregandolo di dire di me tutto quel che sapeva. Il 29 Maggio il Cotti rispondeva: "Non conobbi personalmente il Professore, e non potrei quindi riconoscerlo; però sono pronto a dichiarare che le PRATICHE seguite COSCIENZIOSAMENTE e DISINTERESSATAMENTE da persona di fiducia ASSODARONO in modo INDISCUSSO e INDISCUTIBILE che il Prof. Cap. Giulio Canella RISULTAVA PRIGIONIERO".
12° – Il Comando del Deposito 64° Fanteria in Salerno, dopo quattro mesi dal fatto d'arme scriveva al Comando del Reggimento in Macedonia: "Prego trasmettere rapporto informativo sul servizio prestato dal Cap. Dr. Giulio Canella, CADUTO PRIGIONIERO (prigioniero, NON MORTO: Padre Gemelli!!!) nel combattimento del 25 Nov. 1916, dovendosi procedere al suo avanzamento".
13° – Il soldato Bavaresco, che fronte Trentino mi aveva seguito in Macedonia dichiarò: "Rimasi meravigliato quando, durante l'istruttoria, il Giudice Istruttore mi disse che il mio capitano era morto, avendo io assistito e udito dalla voce di ufficiali e di soldati che presero parte all'azione, che il Prof. Canella era stato visto ferito e raccolto prigioniero, e perché aveva udito il Colonnello del Reggimento comunicare, due mesi dopo, che il capitano era prigioniero e ci salutava".
Consimili dichiarazioni hanno fatto altri scampati della mia Compagnia, o del Battaglione, che tralascio per brevità. Possiedo pure altre testimonianze di altri documenti circa la mia dispersione. Ma avendo ormai dimostrato il mio assunto, non voglio tediarLa. E badi: tutti questi documenti, tutte queste testimonianze sono perfettamente concordi con quelli e quelle raccolti circa gli anni susseguenti, fino al mio ricovero nel Manicomio di Collegno. Per cui, Ella non può nemmeno appoggiare la Sua proposizione dicendo che io non diedi più notizie per alcuni anni; e non può nemmeno dire di avere attinto per altre vie e da altri elementi la convinzione che si formò, dovendo, nel presente caso, offrire prima la dimostrazione in contrario di [illeggibile].
 
Ora permetta a me di rievocare le vicende della fondazione del primo anno della Rivista di filosofia neo-scolastica. Si convincerà così, che sono purtroppo vivo.
Purtroppo, perché, – sebbene circondato dall'affetto più dolce e profondo di mia moglie e dei figli – è preferibile la morte, umanamente parlando, alle presenti mie condizioni civili…
La nostra personale conoscenza fu fatta a Milano, nella primavera e nell'estate del 1908. Ci scambiammo il "tu" più tardi, qualche mese dopo il Convegno di Brescia, organizzato da un piccolo gruppo di cattolici cultori delle discipline filosofiche: davanti ai quali io esposi il programma (che da anni ero andato elaborando e concretando nei più minuti particolari) per la pubblicazione di un periodico che rispondesse al mio indirizzo filosofico, e meglio all'indirizzo della scuola di Levanio. Tale Convegno, al quale Ella era pure presente, doveva decidere se iniziare o meno la pubblicazione della Rivista che io avevo proposto, e fu quivi convenuto – dato che Ella aveva vagheggiata l'idea di fare una pubblicazione di tal genere –, che Lei e il sottoscritto ne fossero i direttori, o meglio i condirettori.
Eravamo giovani (Ella era un po' più maturo), pieni di entusiasmi, di speranze , di fede, pieni insomma di energie morali, intellettuali e di… buona volontà. Ella laureato in medicina e chirurgia e già professore di istologia, nonché fortemente appassionato per la filosofia. A mia volta desideroso di iniziare in Italia, mediante una rivista, una discussione che, basata sulla serena indagine scientifica, affrontasse direttamente la ricerca del criterio primo della certezza e della verità.
Frequentata l'Università di Padova ai tempi in cui insegnavano il positivista Ardigò e lo spiritualista cristiano Bonatelli, in un periodo, cioè, in cui era vivissimo il conflitto tra idee, io vedevo da un lato: a) scossa la fede nell'oggettività dello spirito, del mondo e delle loro leggi; b) il dubbio metodico Cartesiano no sorretto da una presunzione, da un principio; c) le scienze fisiche, biologiche, ecc. …, date come risultati in contrasto alla filosofia scolastica, perciò alla religione cristiana; d) nuove forma errate di idealismo, quasi una reazione alle esagerazioni del positivismo; e) il Kartismo che conduceva ad un nuovo scetticismo, e a interpretazioni notevoli per la scienza e per la vita; f) i sensisti che non ammettevano la possibilità di uscire da certi dati. D'altro lato: a) gli spiritualisti come Bonatelli; b) dei modernisti cattolici, che non sapevano accordare la loro coscienza religiosa colla loro ragione perché legati dal pregiudizio agnostico come certi idealisti e materialisti; c) la Scolastica, colle sue diverse tendenze, coi suoi diversi atteggiamenti.
In mezzo a tanto imperversare di orientamenti filosofici, io vidi la necessità di fare un'inquisizione su tutti i sistemi della mia stessa coscienza filosofica. Volta ogni cura a tale esame e ad approfondire la conoscenza, ebbi presto la rivelazione del problema primo che deve essere alla base di ogni credenza e conoscenza: quello del criterio della verità e della certezza, e arrivai a fare le seguenti considerazioni: a) doversi accettare la filosofia Scolastica colla maggiore libertà di spirito, non ciecamente e per autorità; b) non doversi confondere tutta la filosofia medievale colla Scolastica. Questa, se fu negletta per qualche secolo, anche dalla Chiesa, è ancora viva, e possiede un corpo di dottrine che un vero filosofo non deve trascurare. È antica, non vecchia, ed è sempre presente a quelli che la osservano con assoluta indipendenza. Come uno di quei gloriosi Maestri viventi, ai quali sempre ricorre chi ha idee divergenti, la Scolastica è ancora maestra. Perciò quel che S. Tommaso fece nei confronti di Aristotile liberandolo dalle nebbie del suo tempo, la neo revisione doveva farlo nei confronti della Scolastica, ma ora con strumenti di conoscenza più forti e vigorosi: che permettevano la costruzione dell'edificio sulle vecchie e sulle nuove basi; c) osservare i rapporti esistenti fra lo spirito moderno e l'elemento costitutivo delle Scolastica, e per poterli stabilire bene scindere, per poi riunirli, i rapporti che ha la Scolastica con la Teologia; d) nella discussione colla filosofia contemporanea (mi riferisco sempre a cinque lustri or sono) sull'origine, sulle cause, sulla costituzione del mondo, sulla facoltà del conoscere, ecc. …, non unire fede e ragione, non essere Agostiniani né Anselmiani. Atteggiamento razionale che può sembrare ripugnante ad un vero cristiano, ma che non lo è se nel nostro intimo si tiene sempre presente, oltre lo scopo della critica, che la ragione umana procede da Dio, che la ragione è l'immagine della Mente e dell'Arte Divina; atteggiamento che, pure movendo da dubbio metodico, contiene però un principio informatore, una credenza, ossia la fede nel valore del sapere umano, nella potenza della ragione; e) rimanere lontani dal presupposto che i mezzi e gli strumenti di conoscenza di cui disponiamo non possano condurci a conoscere la verità, ossia a negare a priori la possibilità di risolvere il problema criterio logico; f) nessun timore che la Scolastica avesse a subire danni dalla indagine richiesta dallo spirito moderno, ma se anche ne derivasse qualche danno non dimenticare le saggie parole di Leone XIII nell'Enciclica "Aeterni Patris": "Noi proclamiamo che bisogna ricevere di buona grazia e con riconoscenza ogni pensiero saggio ed ogni scoperta utile da qualunque parte venga… e che se si trova nelle dottrine scolastiche qualche questione troppo sottile, qualche affermazione troppo inconsiderata, e qualche cosa che no si accordasse con le scoperte provate dall'età posteriore, e che sia di probabilità, Noi non intendiamo affatto preporla all'imitazione nel nostro secolo". Non dimenticare la parole del Cardinale Mercier: "Non si tratta di andare indietro, né di asservire il nostro pensiero a quello di un mastro, fosse pure San Tommaso D'Aquino. Questi ci previene che in materia di filosofia l'argomento di autorità è il più debole di tutti".
Subordinatamente: doversi impostare il problema della ricerca del criterio primo della certezza; quello delle credenze e delle verità non dimostrabili razionalmente, ma che la nostra coscienza avverte che non sono false, meglio: che sono giuste; quelle sulla libertà del volere; mettere la metafisica al contatto coi risultati delle ricerche scientifiche, della psicologia esperimentale; a differenza dei positivisti e dei materialisti, che si restringono alla sola esperienza sensibile, estendere tutti i fatti sperimentali, tanto di ordine fisico come di ordine psichico e spirituale.
Questi, a grandi tratti, le linee fondamentali di quel che fu il mio programma. Il suo contenuto filosofico io l'avevo abbozzato in alcuni studi, specialmente quello intitolato "Il nominalismo e Guglielmo d'Occam – Studio critico della filosofia medievale" (che raccolsi poi in un libro di 240 pagine) il quale, oltre ad aver chiarito gli intimi rapporti esistenti tra le dottrine dei più illustri scolastici, e aver servito a purificare la Scolastica da certe interpretazioni errate, tendeva a rilevare la soluzione che la filosofia Scolastica era giunta a dare al problema della conoscenza.
Giunta a un tale grado di maturazione, la mia mente speculativa e critica concepì l'idea di fare la –"Rivista di filosofia Neo-Scolastica", di aprire cioè una discussione che rispondesse alle esigenze del tempo. E senz'altro, pensai e scrissi INTEGRALMENTE il "Programma": quello fu accettato da Lei e da altro cofondatori e poi approvato completamente nel sucitato Convegno di Brescia, avvenuto nel mese di Settembre del 1908.
Poi mi diedi alla ricerca di un uomo più maturo di me non solo di età, che godesse la stima universale per rettitudine e erudizione, cui affidare la Direzione della Rivista. Questo era pure il consiglio che m'aveva dato il veggente Prof. Toniolo (l'ideatore dell'Università Cattolica); ma purtroppo, non c'era allora in Italia la persona adatta e che si volesse assumere tanta responsabilità.
 
Il punto principale, il cardine su cui doveva svolgersi la critica per il rinnovamento del pensiero (rilevo questo punto per poter in seguito dimostrare che Ella non comprese tutto il mio pensiero e si smarrì un poco nei viottoli delle elucubrazioni), era dunque il problema del valore della conoscenza, era una riflessione che facesse veramente superare l'agnosticismo (relatività della conoscenza umana), e superatala, e "provata così – parole contenute nel mio programma – l'esistenza di un ordine assoluto", ossia "fatto il primo e il più grande passo al di là dello scoglio di tutta la filosofia moderna", aprisse "la via ad una ricostruzione del sapere universale, ad una sintesi che abbracciasse in un unico tutto ad abbracciasse insieme il pensiero teoretico colle dottrine pratiche, la filosofia colla morale e colla religione, la scienza colla fede". Compito grandioso, e non certamente facile da svolgersi; ma chiaro, preciso, metodico. La strada da percorrere lunga e faticosa; ma addirittura illuminata. Perciò, non tentennamenti, non perplessità, non incertezze e nessun "mia" o altra Scuola da creare o da fondare: bensì la continuazione filosofica di Aristotile e di San Tommaso (corretti e purgati), poi (sempre corretti e purgati) dei neo-tomisti italiani del secolo u.s., isolati, e dei neo-scolastici facenti capo al grande Maestro Mercier.
Dissi che eravamo giovani; per cui in taluni momenti mi sembrava che fossimo un poco pretenziosi. A Lei no. Se penso ora, al coraggio che Ella ebbe nell'assumersi la corresponsabilità del programma che io Le sottoposi, mentre nell'intimo faceva delle restrizioni, che palesò più tardi, non so se La devo ringraziare o deplorare. Comunque, c'è proprio voluto, oltre che una vivissima e grande intelligenza e una estesa coltura, una buona dose di fortuna. Ma Ella fu sempre fortunato. Le occorreva, ad esempio, un dotto in filosofia, già stimato e conosciuto, che seguisse attentamente il pensiero moderno e nello stesso tempo fosse erudita nella discipline scolastiche, che avesse un carattere mite e che fosse modesto, un uomo cioè, che dopo aver posto il suo nome, inattaccabile per rettitudine e profondità di pensiero, si accontentasse di lasciare a Lei ogni direttiva. Una specie di paraninfo, che dopo averLa condotta al talamo nuziale della Rivista, lasciasse a Lei di fare i propri comodi. Vero? E saputo ch'io stavo per dare forma concreta alla idea elaborata in parecchi anni, disse: Ecce homo!
Nonostante la Sua rumorosa conversione dal positivismo diArdigò al Cristianesimo, dopo essere passato attraverso le più disparate teorie, e nonostante le voci poco riguardose e apologetiche a Suo riguardo, io mi ero formato un concetto molto elevato della Sua personalità morale intellettuale, anzi pensavo, che la conversione era proprio avvenuta nella forma della Scolastica, per via cioè del procedimento intellettuale. Naturale, dicevo fra me, che un tale individuo, fosse approdato nel porto di N.S Religione. Vedevo perciò tutto roseo! I nostri rispettivi e comuni amici, che ci stimavano forse più di quel che meritavamo, e che fecero nei nostri confronti come fanno due mamme quando vogliono metter d'accordo e unire in matrimonio i rispettivi figliuoli, contribuirono non poco a farmi vedere tutto roseo.
Devo dirlo? – e mi scuso se tocco per un istante la non innata modestia – ero addirittura orgoglioso di Lei.
Per tutto questo e fors'anco per una certa presuntuosità nelle forze derivatami dai lunghi studi, io non m'accorsi subito né del Suo carattere assai diverso dal mio né soprattutto di una lacuna non lieve; questa: Ella, sebbene dotato di coltura varia ed estesa, e sebbene già illustre medico, non era tuttavia così erudito, per ciò che riguarda gli studi e le ricerche attinenti la filosofia in genere e alla Scolastica (parlo di 26 anni or sono, ché, ora Ella è divenuto Maestro), come suole e deve esserlo colui che si ASSUME la responsabilità di dirigere una Rivista di filosofia. Altra cosa è l'esser medico e amante studioso della filosofia, altra è parlare come capo, come condottiero, come guida a quelli che hanno conquistato il titolo di dotto in filosofia dopo lunghi anni di faticose ricerche: quelli erano, per la maggior parte, i nostri lettori. Invero, Ella si era reso abbastanza padrone della Scolastica, ma Ella non era e non poteva ancora essere il Maestro che si addiceva ad una Rivista così importante.
Codesta lacuna l'ha dimostrata Lei stesso, colle parole pronunciate dopo dieci anni dalla fondazione della Rivista: "Scarso il prodotto del nostro lavoro, CONTRADDITTORIO talvolta il nostro contributo…". Confessione che significa un vero… disastro!
Ne convenga: la distanza fra Lei e me, in erudizione filosofica, era quasi uguale – allora – a quella fra Lei e me in medicina; di modo che se c'erano dei momenti in cui sembrava a medi essere presuntuoso davanti al compito grandioso, e se non mi ritenevo certamente Maestro, figurarsi cosa doveva ritenersi Lei!
Pecco d'immodestia, ma mi trovo in una situazione tale che mi obbliga a precisare le posizioni. La mia tesi di laurea in filosofia, che mi fu lodata dall'Ardigò nonostante fosse notoriamente contrario ai principi ivi contenuti, m'aveva già fatto distinguere quand'Ella era ancora, dirò così, in fasce nei riguardi della filosofia Scolastica e neo-scolastica, quand'Ella era ancora fra le braccia dei santoni delle dottrine materialistiche applicate anche alla politica e alla sociologia. Studi e conferenze m'avevano attirato la simpatia di molti sacerdoti e secolari colti, i quali sentivano il bisogno di una pubblicazione che contenesse una elevata critica (non essendo la filosofia un dogma, bensì una materia soggetta agli argomenti addotti), che consentisse l'esercizio di una discussione onesta. Codesto bisogno derivava dal fatto, che molti vedevano la necessità di rispondere non più solamente coll'articolo di fede ai diversi problemi e quesiti posti dalla filosofia contemporanea, tanto più che noi cattolici eravamo tacciati di essere degli… archeologi in fatto di scienza e filosofia. Invero, noi non avevamo ancora dimostrato esplicitamente ciò che era in noi implicito, noi non possedevamo ancora una vera base filosofica moderna: su cui erigerci positivamente contro tutte le altre teorie.
È evidente, che alla costruzione del nuovo edificio mediante il periodico filosofico novello, occorressero degli architetti profondi in materia.
Ella mi obietterà di aver frequentato l'Università di Padova, ossia le lezioni del Prof. Ardigò. È vero; ma per breve tempo. D'altronde, l'avere ascoltato il verbo positivista, se è atto degno di encomio non vuol dire che Ella si erudisse in filosofia neo-scolastica, sebbene, sotto certi aspetti, anche noi neo-scolastici siamo dei positivisti.
Concedo, che essendo la "conoscenza" imperniata molto sulla psicologia, e essendo questo il campo dove Ella era più competente, era logico che il lavoro fosse diviso, e ciò fui sempre io il primo a manifestare; ma da dividere il lavoro per materie secondo la competenza di ognuno, a voler fare quasi esclusivamente della psicologia esperimentale, e a voler invadere il campo altrui, o meglio, come Le andrò dimostrano, a mettere il collega nella direzione della Rivista in condizioni di non poter più funzionare, via! Ci corre una distanza un po' troppo forte.
 
Quando m'accorsi della profonda diversità di carattere, e della suddetta lacuna, non ero più in tempo a mutare. Figurarsi in quale imbarazzo mi trovai. Si farà, conclusi, e pensando al grande contributo che Ella poteva tuttavia portare alla Rivista colla sua indiscussa autorità scientifica e morale – medico, sacerdote, amantissimo della filosofia –, intensificai l'opera mia.
Ma sopraggiunse presto un altro guaio: m'accorsi, che Ella aveva delle velleità contraddittrici, egemoniche. Approfittando di un doloroso equivoco insorto fra me, Don Zamboni e l'On. Coris con il Vescovo di Verona, Ella volle che la Redazione fosse tutta accentrata presso di Lei, a Milano.
Noti – Ella che volle farmi apparire un ingenuo e poco pratico presso i miei medici e poi davanti ai procuratori del Re: ciò per far deviare lo sguardo dalle vere ragioni che portarono alla rottura dei nostri rapporti – noti che, dato i tempi, non era nemmeno opportuno, per la riuscita della Rivista, che la Direzione-Redazione fosse accentrata presso un sacerdote, perché da un lato non sarebbero mancate le critiche accese dei nostri avversari, dall'altro quelle dei modernisti militanti nel nostro stesso campo religioso, i quali ci avrebbero guardato con maggior diffidenza. Ella deve rammentare, che se Leone XIII ci aveva apprestata la libertà e stimolati a combattere l'agnosticismo, e se Pio X ci forniva il Suo aiuto per dimostrare che scienza e fede non sono termini antitetici, c'erano però nel nostro campo degli agnostici terribili che ci davano no pochi grattacapi; Ella proveniva poi, se non fresca fresco, da poco tempo dal campo avversario; per cui era assolutamente inopportuno, oltre che ingiusto ciò che Ella intendeva fare. E poi, diciamolo francamente, le parti, così facendo si invertivano addirittura: io, che avevo concepito e scritto integralmente "Il nostro programma", e che un senso della realtà e di giustizia, soprattutto un poco di modestia da parte Sua doveva farmi riconoscere non dico autorità maggiore, ma una certa tacita preponderanza (dato che la rivista era di… filosofia), avrei dovuto assoggettarmi a non avere più nessun controllo sulla Rivista, e a ricevere gli ordini dal condirettore… medico.
Si venne a trattativa e si finì coll'andare avanti… zoppicando.
Altri dissensi dovevano subito insorgere, non per colpa mia.
Ella incominciò a voler dare, non dirò proprio un altro indirizzo, ma una impronta, una fisionomia troppo personale alla Rivista, e se io non avessi fatto capire il mio malcontento, questa sarebbe senz'altro divenuta un campo di psicologia: sperimentata sui polli, su cani, su gatti, ecc. …
Se c'era un individuo che voleva introdurre la discussione scientifico-filosofica facendo intervenire la psicologia, questo ero proprio io; ma io non intendevo chela nostra divenisse un Rivista di psicologia applicata, o di fisiologia e biologia, o magari di neurologia o sperimentale di freniatria, tutto fuorché filosofia. Prendere in esame tutto il procedimento e tutto il movimento degli studi psicologici dell'epoca moderna, benissimo; ma pur prestando la dovuta attenzione alla parte che riguarda la psicologia sperimentale, anzi dandole la dovuta importanza, io non volevo però che si arrivasse a dare per psicologia quel che era fisiologia e biologia.
Il problema fondamentale del "conoscere" è più che altro fondato sulla psicologia pura, e se questa anticamente era basata esclusivamente sulla metafisica e costituiva la psicologia ontologica, io volevo che si appoggiasse, ora, seppur non esclusivamente, alla moderna psicologia. Ma Ella, che più che filosofo era biologo e fisiologo, scambiava la psicologia pura, sul cui terreno noi ci dovevamo contenere, colla psicologia sperimentale-empirica molto complicata, molto labirintica, tutta fatti staccati di esperienze molte volte superficiali e di difficile controllo. Andando giù per tale china – parlando cioè di psicologia in quanto scienza naturale, e mediante il gabinetto biologica, fisiologico, anatomico –, Ella non s'accorgeva che non sarebbe arrivato a risolvere i problemi contenuti nel nostro programma, e che sarebbe arrivato invece a ridurre in schiavitù la psicologia superiore.
Tale sgarbo ha però la scusante nel fatto, che proviene da un Prof. in Istologia, da un fisiologo e biologo…
C'erano comunque, sul tappeto, alcuni problemi urgenti, che bisognava subito affrontare, per soddisfare la coscienza filosofica della maggior parte dei nostri lettori.
L'articolo, che Ella ammannì nei quattro primi numeri della Rivista, non apparteneva ai più urgenti bisogni. D'altra parte in questo Suo articolo di ordine fisiologico-psicologico (psicologico in quanto scienza naturale: perciò psicologia ancora molto fragile – allora) – di circa 90 pagine con tavole… anatomiche, intitolato "Teoria somatica dell'emozione" –, Ella arrivava a stabilire ciò che avevano in gran parte stabilito Aristotile e in ispecie S. Tommaso. Quest'ultimo aveva stabilito che "i due elementi, fisiologico, psicologico, sono ambedue essenziali per costituire il fatto emotivo".
Con una piccola differenza tra Lei e S. Tommaso: secondo questi "nel processo fisiologico le manifestazioni periferiche hanno per fattore primario il movimento anormale del cuore", mentre Ella non vuole ammettere "che il fattore primario del ciclo fisiologico della emozione sia una modificazione interna vasomotrice", perché "dai risultati ottenuti dai fisiologi appare che le manifestazioni cardiovascolari hanno per punto di partenza uno stimolo che parte dai centri nervosi motori speciali". Aggiunge poi Ella stesso, che "le ricerche esposte dimostrano che, di fronte alla insufficienza delle teorie somatiche e intellettualiste sull'emozione, noi dobbiamo ritenere che la teoria Tomista è quella che meglio risponde alle moderne esigenze della fisiologia e della psicologia perché essa armonizza i dati di fatto delle due conoscenze".
Orbene, di tutto ciò la maggior parte dei nostri lettori era al corrente fino dagli anni in cui frequentava qualche scuola cattolica o qualche ottimo istituto, oppure per mezzo di Riviste, di conferenze, di libri.
Esser arrivati – com'Ella arrivò: dopo aver praticato il taglio del midollo cervicale e tolta la corteccia cerebrale a un numero ragguardevole di cani e gatti – a poter dire: "Noi dobbiamo ammettere la emozione come stato psichico indipendente dai fenomeni mimici e dalle reazioni organiche che esso prova"; che "l'emozione è per l'organismo uno stato anormale che interrompe e precipita il funzionamento fisiologico"; e che "negli animali apestesici (cioè resi da Lei apestesici col taglio del midollo spinale) ai quali si era tolta la corteccia cerebrale e che conservavano i centri mimici, si aveva la conservazione della mimica, ma era completamente distrutto ogni minimo accenno alla emotività"; esser arrivati a dire tutto ciò è cosa lodevole, ma di secondaria importanza per la nostra Rivista. Bastava perciò un adeguato riassunto.
Ella deve riconoscere, che sulla scorta di S. Tommaso, e soprattutto degli studi e delle ricerche del Mosso, delSergi, del Montanelli, del D'allones, del Sherrington, delPieron, del Sollier, del Frank, del Mange, del Becheterew, del De Sarlo e di tanti altri fisiologi e psicologi moderni, da Lei spesso citati, noi avevamo già una conoscenza abbastanza vasta e profonda sull'argomento. Non c'era che da aprire una rivista medica.
L'applicazione del procedimento della speculazione contemporanea alla neo Scolastica era una delle colonne basilari del nostro programma; ma una Rivista che si era assunta la responsabilità di risolvere anzitutto il problema criteriologico , che "con ferma fede di superare l'agnosticismo, poneva il problema alla base di ogni speculazione epistemologica, ossia la ricerca del criterio della certezza", doveva pure compiere un lavoro introduttivo adeguato (così gli studi del Sentroul, titolare della cattedra di filosofia neo-scolastica nel Convento dei P.P. Benedettini di S. Paolo, del Masnovo di Parma, del Tredici, ecc. …). "Qualunque sistema, aggiungevo nel mio programma, non trattasse o ciò che è lo stesso, desse per irrisolto a priori il problema criterio logico in tutta quanta la sua ampiezza e gravità, non avrebbe diritto a cittadinanza nel pensiero odierno…". Orbene, prima di far entrare la psicologia empirica e sperimentale – esperimentata su polli, su cani, su gatti, ecc., per trarne delle deduzioni di analogia all'uomo, c'erano altri problemi assai più necessari da risolvere. E poi, sia detto senz'ombra di ironia, una volta provato che nei suddetti animali viene a mancare ogni accenno all'emotività dopo che s'è loro tolta la corteccia cerebrale, quale cammino aveva fatto la neo-scolastica? Pochissimo, se si pensa al contributo già fatto da S. Tommaso fino ai moderni fisiologi e psicologi; nulla, alla ricerca del criterio della certezza; nulla, "alla sintesi che abbracciasse in un unico tutto ed accordasse insieme il pensiero teoretico colle dottrine pratiche, la filosofia colla morale e cola religione, la scienza colla fede.
Il Suo articolo poteva essere accetto da tutti i filosofi più in voga, da Loke, da Hegel, da Kant, da Compte, da Ardigò, da Croce e da quanti negano che l'esperienza conduca a Dio. E infatti, non si trova proprio nulla che conduca a Dio, che si rannoda ai principi di causa. Nel fatto Ella, se ha recato un contributo alla psicologia sperimentale, alla psicologia in quanto scienza che non era ancora scienza naturale, non ha però recato un granellino alla dimostrazione filosofica scientifica dell'ordine assoluto, dell'esistenza di Dio.
Ahimè! Ella non capì questo: dato che i filosofi contemporanei negavano ai principi metafisici, ossia tanto alla Teologia rivelata e razionale come all'ontologia ogni valore, era perciò nella gnoseologia e critica che noi dovevamo lottare, che noi dovevamo impegnare le nostre grandi battaglie.
E dire che i Cardinali Rampolla, Ferrai, ed altri, ai quali Ella si era rivolto, Le avevano risposto, BenedicendoLo, parlando di "filosofia cristiana".
 
Ed ora passiamo ai fatti che acuirono il dissidio e che condussero alla rottura completa dei nostri rapporti. Possono taluni apparire banali, ma non li ho cerati io. Io li devo solamente rievocare, affinché Ella si convinca che colui che li va esponendo è lo sventuratissimo Giulio Canella.
Dissi che Ella aveva voluto che la Redazione fosse tutta accentrata presso di Lei, e che poi se ne fece nulla. Ebbene, dopo qualche tempo Ella ritornò alla carica. Ma questa volta colla scusa che molti andavano a cercarla a Firenze, dov'era l'Amministrazione della Rivista. Benedetto uomo! Ed io, non ero ugualmente ricercato? Scusa magra, d'altronde, la Sua, perché era sempre irreperibile: dovendo viaggiare molto.
Incominciò così a prodursi una serie di incidenti e di fatti, i quali, oltre che danneggiare il buon andamento e l'armonia della Rivista, fecero alterare il mio malcontento.
Io desideravo che fosse fissato almeno un giorno alla settimana, per abboccarci e scambiarci le idee, ed avevo proposto Milano come luogo di convegno, per sua maggiore COMODITA'. No, non voleva fissare il giorno. Io dovevo invece attendere – quasi Ella non fosse il mio condirettore, ma un'augusta o eminente persona – quando Le… accomodava. Perché, diceva, non poteva fissare secondo il mio desiderio. Ma se non poteva, doveva anche pensarci prima.
Sta bene, Ella viaggiava molto; ma se Ella viaggiava, io, pur dovendo rimanere fermo al tavolo, ero, assorbito, forse più di Lei, e dall'insegnamento e da diversi altri impegni che Ella non ignorava, e per incontrarmi a Milano dovevo compiere dei veri sacrifici, compreso quello di togliermi le ore dovute al minimo di risposo. Ho rilevato questo episodio, anche per dimostrare che noi ci vedevamo rarissimamente, mentre Ella, in una circostanza di cui parlerò a suo luogo, si espresse in maniera da indurre a credere che ci si incontrasse molto frequente.
Io dovevo ingoiare tutte le imposizioni, e quando mi permettevo di fare qualche osservazione, sempre coerente al programma e al mio campo di studi, e col massimo rispetto, apriti cielo! Erano corruscamenti di ciglia e di sopracciglia, eran fulmini, lampi, tuoni! Saltava su con i più svariati motivi retorici, deviava l'argomento, se la prendeva con me perché non mi affrettavo a… ubbidire (ah se Monsignor Zamboni parlasse!), se la prendeva coll'ottimo Dini, amministratore della "Fiorentina", col Proto, con tutti, meno s'intende, che con sé medesimo.
La "Revue Neo-Scolastique" di Lovanio pubblicava da anni un elenco delle opere e delle riviste di filosofia. D'accordo coll'illustre De Wulf rappresentante della suddetta revue, si era combinato di riprodurre tale elenco sulla nostra. Giustamente e scrupolosamente, io avevo tradotto anche il titolo: "Sommario ideologico"; ma Ella, sempre amante della novità, voleva che fosse mutato, che il… sommario (ed era veramente un sommario di idee) si chiamasse… Supplemento. Quali piccolezze!
Una signora Le aveva promesso che avrebbe versato nelle di Lei mani una somma corrispondente, nel caso che la Rivista fosse passiva. Azione nobilissima da parte di quella signora (la quale mi scusi, e se esiste come spero, mi serva da teste); ma che l'accettante doveva bene ponderare. Ella accettò senz'altro, un patto così delicato, senza farmi intervenire, senza informarmi prima.
La mia volontà, o meglio il mio sacrosanto diritto nella rivista non contava. Si capisce: il sogno di avere una Rivista propria, di filosofia (per disporne personalmente), si era quasi avverato. Logico, come conseguenza, che io dovessi scomparire. E di fatto mi fece scomparire, nello stesso modo che mi fece poi "cadere" nel combattimento del 25 Nov. 1916.
Un giorno era la volta dei manoscritti. Li voleva tutti presso di sé.
Un altro giorno era la questione dell'archivio. Parte di esso si trovava nelle mie mani. Non c'era nessun motivo che questa parte passasse nelle di Lei mani, perché, per le stesse ragioni io avrei potuto richiedere la parte da Lei detenuta, anzi sarebbe stati più giusto, e logico, che l'archivio fosse tutto nelle mie mani, dato che il campo dei miei studi, più adeguati al titolo e al programma della Rivista, e data la parte da me avuta nella fondazione.
Insomma, non Le bastava più che l'archivio fosse sempre stato tutto a Sua disposizione. Il deliberato proposito di… assorbimento continuava.
D'altronde, Ella possedeva un archivio abbastanza rilevante, non avendo tralasciata occasione per accentrare al Suo indirizzo manoscritti, lettere, ecc., tanto vero – e qui devo far rilevare un fatto sintomatico –, che Ella deteneva molte lettere di Cardinali, di Arcivescovi, di Vescovi indirizzate personalmente a Lei, le quali dimostrano pure com'Ella non stesse nemmeno a fare il mio nome… Diceva il Card. Rampolla, tra l'altro: " La ristorazione della filosofia CRISTIANA… a cui mirerà la novella Rivista da LEI DIRETTA"; "ardua impresa alla quale È per accingersi". Il Card. Maffi a sua volta Le scriveva: "Una Rivista di filosofia secondo il programma che ELLA…". Il Card. Mercier: "De tout cœur, j'applaudis a VOTRE vaillante INITIATIVE. Si VOUS parvenez a reunir autour de VOUS quelque hommes…, je crois que VOTRE projet…". È pacifico, che le risposte di queste eminenze sarebbero state rivolte al plurale, o per lo meno avrebbero fatto un cenno anche al sottoscritto, ove il mittente fosse stato un poco più umile, un poco più modesto, un poco meno personale, se avesse insomma, nominato anche colui, che sapeva quanto aveva faticato e faticasse per arrivare alla pubblicazione del periodico. Non Le sembra? – Non così mi comportavo io, semplice secolare, prima ancora del Convegno di Brescia, alcuni mesi prima cioè, che si deliberasse la pubblicazione e che si formasse la Direzione.
 
Ma Ella ha proprio un debole spiccato e speciale per il singolare. Cito un fatto sintomatico, e mi scusi la digressione:
Mentre – grazie specialmente a Lei e all'ineffabile Conte Dalla Torre – mi trovavo rinchiuso nel Reclusorio di Pallanza, nel 1932, mi capitò fra le mani l'ottimo libretto che Ella pubblicò sulla S. Messa. Me ne rallegrai sinceramente davanti al cortese comandante delle guardie: che il 1° libretto m'aveva presentato.; ma non potei a meno di sorridere e poi di fare i relativi commenti davanti allo stesso comandante, quando lessi che Ella, viaggiando in Germania, era rimasto colpito e ammirato nel vedere come i fedeli cattolici tedeschi seguivano la S. Messa, e che quindi aveva pensato di fare altrettanto in Italia. Smemorato! Quasi che in Italia i cattolici, e fin da parecchi anni prima della Guerra Mondiale, nulla avessero fatto per la liturgia! Ella ha semplicemente tutto quello che fu fatto in provincia di Verona e specialmente di Vicenza, e in ogni modo prima di Lei in altre provincie. Fino al 1912 o 1913 la "Anonima Vicentina", di cui era Direttore il sig. Capelletti, aveva fatto delle ottime pubblicazioni in merito, e prima ancora esisteva un attivo periodico, la "Rivista di Liturgia". Se il Suo pensiero fosse andato indietro di un secolo solamente (solamente perché si può risalire ai primi secoli del cristianesimo) , avrebbe potuto rievocare dagli scritti del Tommaseo su Rosmini, che questi "si doleva che nei riti del culto del popolo fosse con l'intelligenza diviso dal prete: le preci voleva veramente comuni…". Ma per sincerarsi sul lavoro compiuto dai cattolici in Italia, sarebbe bastato che Ella, che vanta giusti titoli di ottimo cittadino italiano, invece di andare a prendere lezioni di liturgia in Germania si fosse degnato di recarsi una sola Domenica in un paese del Vicentino, od avere interrogato in proposito qualche sacerdote del luogo.
 
E venne il colpo finale, quello che non mi permise più di continuare.
Vedendo che le difficoltà da Lei create minacciavano seriamente i pochi rapporti amichevoli ancora esistenti, e anche per scindere la mia responsabilità, io avevo pensato di redigere un regolamento, il quale disciplinasse ogni cosa in perfetto ordine. Per darLe prova della mia sincera volontà di perseguire amichevolmente facevo una perorazione, nel senso che, ormai, ci conoscevamo bene, sapevamo di poter interamente fidarci (!!!) l'uno dell'altro circa l'INDIRIZZO che volevamo dare alla Rivista e circa la serietà che volevamo conservata; per cui, non avevamo bisogno di controllarci reciprocamente l'opera e potevamo dividerci il compito, facilitando il lavoro, che fino allora era stato un poco farraginoso e rendendo possibile uno sviluppo più organico alle varie parti della Rivista.
Mi sembra di avere esercitata tutta la pazienza, di avere dimostrata tutta la mia compiacenza e accondiscendenza, e insieme la limpidezza e la rettitudine delle mie intenzioni. Ricorda?
Io proponevo un ordine, una via amichevole, equilibrata e "pratica" di uscita, la quale ci liberasse dal marasma (creato da Lei) e rendesse libere le nostre azioni. Ciò avveniva alla fine dell'estate o in principio dell'autunno 1909, dopo che erano usciti i tre primi numeri.
In quale modo fui ripagato! Ad una tale proposta Ella corrispose con una vera soperchieria, colla proposta solita, cioè, impossibile che fosse da me accettata: la Direzione e l'Amministrazione fossero fissate a Milano, al Suo indirizzo, Convento di Via Maroncelli 23.
Una vera e propria usurpazione, un vero e proprio atto di prepotenza.
E senz'altro, Ella adibì una camera del Convento, disponendo mobili e scaffali, per la Redazione e l'Amministrazione.
Io sono perfettamente convinto che il Rettore del Convento non fu da Lei messo giustamente al corrente della questione, altrimenti non avrebbe dato l'assenso.
Può forse sembrare a taluno – tanto la cosa appare inaudita nei Suoi confronti –, che io esageri, che io deformi, che io alteri. Orbene, Provvidenza mi ha permesso di rintracciare, non senza forti difficoltà, un documento che attesta, irrefragabilmente, quanto io affermo.
Nel N° 3-8820, 4 Gennaio 1911 del quotidiano "Verona fedele", diretto da Monsignor Grancelli, sotto il titolo – "Il Dottor Giulio Canella si ritira dalla Redazione della Rivista di filosofia neo-scolastica", compariva la seguente mia dichiarazione:
"Preg. mo Signor Direttore – … io sottoscritto rendo noto che da tempo non ho più parte nella Redazione della Rivista di filosofia neo-scolastica, stampata a Firenze dalla "Libreria Editrice Fiorentina", di cui figurai finora condirettore. Fin da PRINCIPIO dello scorso anno FUI IMPEDITO DI ESERCITARE LE MIE FUNZIONI nella condirezione della Rivista. Contro la situazione fattami a questo riguardo INVANO PROTESTAI, ricorrendo anche all'intervento di amici autorevoli perché fosse eliminata OGNI INFLUENZA PASSIONALE. Dovetti finalmente accorgermi essere più dignitoso e conveniente per me l'abbandonare ogni pratica, e così feci. Avendo poi con la lettera 22 Dic. u.s pregai l'attuale direttore della Rivista di inserire nell'ultimo numero dello scorso anno una brevissima comunicazione che SEPARASSE LA MIA RESPONSABILITA' da quella degli attuali redattori, ed essendomi stato risposto, NON SOLO CHE LA MIA DICHIARAZIONE NON POTEVA ESSERE PUBBLICATA che nel N° primo del 1911, ma che DOVEVA ESSERE MUTATA NEL SUO CONTENUTO (e DOVEVA esserlo RADICALMENTE, secondo il teso comunicatomi), io, non potendo più oltre aspettare il COMODO di nessuno, né potendo PERMETTERE che la MIA POSIZIONE riguardo agli attuali redattori della Rivista SIA PRESENTATA IN MODO DIVERSO DAL VERO, ho creduto necessario ricorrere alla pubblicità del Suo pregiato giornale per dichiarare che fin dall'Ottobre 1910 non ho più NULLA A CHE VEDERE colla Rivista di filosofia neo-scolastica, e che intendo di essere completamente libero a tale riguardo. Questa dichiarazione ho fatta non per altro motivo che per NON ESSERE RITENUTO RESPONSABILE di un'opera che NON POSSO IN ALCUN MODO CONTROLLARE. Firmato Dott. Giulio Canella – 2-1-1911".
I commenti a codesta lettera guasterebbero.
Ritornando all'… accentramento di ogni cosa pertinente alla Rivista, mi permetta domandarLe: chi aveva data a lei una simile autorizzazione?
Io no. Perciò né Lei né altri poteva permettersi un tale atto.
Reverendo Padre: io sarò stato un piccione invece che un'aquila; io non avrò posseduto e non possiedo le brillanti qualità e le preclare Sue virtù; io, semplicemente laico, non sarò stato intraprendente e organizzatore come Lei; sarò stato tutto quel che Lei vuole; ma via! non mi meritavo da Lei un trattamento di tale genere!
 
Potei domandare ora: Cosa ne ha fatto del mio, del "Nostro programma"?
C'è chi osserva, che Ella, in un solenne discorso pronunciato pochi anni fa, diede un calcio alla filosofia moderna, ritenendola un'infezione del pensiero; c'è chi dice, che Ella oscilla oggi verso una tendenza, domani verso una nuova corrente, posdomani verso un altro indirizzo; c'è chi rileva, che tutta la Sua produzione risente di chi vuol fare troppo e di chi ha un morboso culto della popolarità, c'è chi pensa, che non è lontano il giorno in cui la discussione filosofica, sotto i di Lei insegnamenti, ritornerà allo stato in cui era prima di Leone XIII; c'è chi ha l'impressione, che Ella, invece di fare della filosofia sulle conquiste moderne abbia invece dato il scientista sula filosofia, e, confondendo i due ordini: scientifico e filosofico, creduto di parlare da filosofo quando parlava in nome della scienza, e viceversa; c'è chi constata, che a differenza di me, che volevo inserire il giusto equilibrio fra il dogmatismo della Scolastica (mediante il cristianesimo) e quello critico della filosofia moderna, Ella proclamò frettolosamente l'accordo tra la speculazione moderna e quella della Scolastica, senza badare troppo a certe forme dell'una e dell'altra, senza pensare troppo, che per arrivare alla fusione dei non pochi elementi antitetici della speculazione moderna colla Scolastica, e per tenersi lontano tanto dalla tendenza dogmatica di questa come della pura critica della moderna filosofia, occorreva una discussione metodica e uno studio profondissimo; c'è chi considera che il compito costruttivo contenuto ne "Il Nostro Programma", è andato facendosi compito distruttivo; c'è infine chi considera amaramente e nostalgicamente , che la nostra Rivista, la quale raccoglieva attorno a sé tanti illustri uomini e t anti entusiasmi, tanti pensieri, tante speranze, tanti palpiti aveva suscitati, non è ora, altro che un antico faro, alimentato da un olio poco combustibile, e che ciò è avvenuto non perché in Italia manchi il buon combustibile filosofico, non perché manchino gli uomini di valore, ma perché Ella ha imposto il Suo pensiero e si è liberato di elementi serissimi e vitali: vere illustrazioni – come Monsignor Zamboni – nel campo filosofico-psicologico.
Tutto ciò invero, si accorda colla di Lei condotta nei miei confronti. Ma io, non avendo potuto analizzare la Sua opera dagli ultimi quattro lustri, e non potendo assumersi un tale pondo per una serie di mali, non mi voglio pronunciare e non voglio e né devo pronunciarmi perché da vent'anni sono ormai completamente staccato dagli studi e dal pensiero filosofico. Quel che posso dire è questo: giudichino coloro che hanno seguito e il di Lei pensiero e il pensiero filosofico moderno. Conosco il Suo valore e i Suoi meriti: sono grandi; ma badi: i meriti degli uomini che escono dalla sfera comune possono essere distrutti in un fiat da un contegno macchiato di ombre fitte e oscure. E posso dire anche questo: il compito tracciato nel "Nostro Programma", l'ho già detto, era grandioso, ma chiaro, metodico, preciso. Si trattava di dare alla filosofia un indirizzo su tali fondamenti che non sarebbero giammai crollati. La critica, la discussione voluta dalla filosofia neo-scolastica – e da me impostata limpidamente –, dopo aver conquistato tutto il mondo filosofico si sarebbe dovuta imprimere saldamente in tutte le manifestazioni della vita. Dopo 25 anni, io non vedo tale saldezza.
 
Dovrei fermarmi qui. Ma una serie di circostanze dolorose per me mi impongono di continuare.
Nel 1927, a Collegno durante la famosa istruttoria Ella, ad una mia risposta provocata dall'Ill.mo. Procuratore del re sulla natura del nostro dissidio – che fu di ordine spirituale –, affermò precisamente il contrario: che era stato cioè di ordine materiale, pratico.
Credo di avere dimostrato, che l'origine e la natura del nostro dissidio, e la conseguente rottura dei nostri rapporti, fu di ordine spirituale, fu inequivocabilmente di ordine intellettuale. Ma voglio aggiungere una fra le diverse dichiarazioni che sono in grado di produrre. Un caro amico mio, non della ventura, ora monsignore, ha dichiarato tra l'altro:
"A proposito di Padre Gemelli, delle sue osservazioni, ed affermazioni dopo la visita di riconoscimento a Collegno, osservazioni ed affermazioni recentemente ripetute, con INDISCREZIONI SCANDALOSE E CHE DOVREBBERO CADERE SOTTO LE SANZIONI DEI SACRI CANONI, sono io stesso in grado di dargli UNA SMENTITA. Infatti Padre Gemelli contestava la verità di una risposta datagli dal ricoverato intorno ai motivi di divergenza circa la Rivista di filosofia neo-scolastica e diceva che queste divergenze erano derivate NON da questioni di idee, ma da questioni finanziarie. Ebbene, ricordo come se fosse ora, che un giorno, nel mio studio, ragionando della Rivista del prof. Giulio Canella mio disse testualmente: "Padre Gemelli farebbe bene a fare il suo mestiere, cioè il medico e non il filosofo, che non è assolutamente mestiere per lui". E poi mi spiegava che appunto per divergenze di idee egli aveva ritirato il proprio nome dalla condirezione della Rivista".
Invero, sarebbe bastato che gli Ill.mi Procuratori si fossero posti, un istante solamente, il dubbio benefico sula veridicità o memo delle Sue affermazioni, ed avessero estese le indagini interrogando, in merito, alcuni testi (che io sono sempre in grado di presentare), e si sarebbero subito convinti, che io avevo dato un preciso capitale ricordo, e che Ella non aveva disposto secondo verità.
Ma chi è quel Giudice che poteva immaginare che Ella non avesse esposto il giusto? Che Ella non si fosse espresso secondo gli insegnamenti di Cristo?
Reverendo P. Gemelli! Ho la sensazione, giustificata, che la mia sorte sia stata decisa il giorno in cui Ella venne a Collegno, perché da quel giorno l'istruttoria prese un indirizzo a me avverso. Quale tremenda responsabilità Ella si assunse davanti a Dio, davanti alla giustizia, alla scienza, all'umanità! Non ci pensa qualche volta, nel proficuo silenzio della sua bianca claustrale cameretta, o nelle notti durante i viaggi in treno? Io sì che ci penso; io ho pensato a Lei molte volte, specialmente mentre mi trovavo nella fredda o torrida cella del Reclusorio, dove Ella, più fortemente di tutti, contribuì a farmi rinchiudere. Ma Le posso assicurare, che ho preferito trovarmi così orribilmente, ingiustamente colpito – come preferisco essere nel presente immenso, noti: immenso dolore –, piuttosto che nei Suoi panni. Ma, mi si osserva, sembra che Ella non abbia rimorsi. Se così è, o Ella ha commesso il gravissimo errore nella più perfetta buona fede, e allora lo riparerà dopo la lettura dei questa mia memoria, oppure io dovrò pensare come la pensa il Ribot in fatto di passione (Ella è psichiatra e psicologo, perciò mi intende).
Due, nel mio caso, erano gli elementi più importanti da turbare: la magistratura e la stampa.
Ella (non dico che l'abbia fatto per turbare), subito dopo il confronto di Collegno, e in altre circostanze, sentì il bisogno di farsi intervistare da un numero rilevante di giornali.
"Devo premettere – dichiarò ai giornalisti –, che io mi recai a Collegno nella migliore disposizione d'animo…".
Orbene, io posso dimostrare che Ella NON si trovava in tale disposizione.
Parlando di me con un comune amico, pochi giorni prima di recarsi a Collegno, Ella fece la seguente solenne affermazione: "IMPOSSIBILE che sia Canella".
Impossibile, a priori? È forse un nuovo metodo e indirizzo filosofico quello che Ella ha instaurato nei miei confronti?
Tralascio di rilevare il tono enfatico e cattedratico di alcune Sue affermazioni fatte ai giornalisti circa la Rivista: ciò risultando dalla esposizione da me fatta. Noto solamente, che Ella fu alquanto spiccio e superficiale.
Disse che "La condizione durò per un anno. La pubblicazione era trimestrale, ma richiedeva una laboriosa preparazione: il Canella veniva quindi SPESSO a Milano, sede della Rivista".
Ho dimostrato, che allorquando Ella, nell'autunno 1909, con un atto inqualificabile, volle e stabilì la Direzione e l'Amministrazione delle Rivista a Milano senza la mia autorizzazione, IO RUPPI SUBITO I RAPPORTI E CON LEI E CON LA RIVISTA. Perciò le Sue affermazioni, in questo caso, sono anche mendaci.
Dicendo: "…ma richiedeva una laboriosa preparazione", espressione non necessaria, ha forse voluto insinuare che l'… impreparato ero io? Le ho dimostrato quale dei due aveva la più forte preparazione filosofica.
"L'avvenimento – continuò – non alterò i nostri reciproci sentimenti, sebbene venisse a mancare la causa del contatto".
C'è contraddizione in ciò che ha detto prima e non ha esposta la verità.
Basta leggere la mia recisa dichiarazione su "Verona fedele". Ci fu una specie di ravvicinamento nel 1912 o 1913, a mezzo di comuni amici, fra cui il Necchi. Io ero stato invitato da un'Associazione a tenere un ciclo di conferenze a Milano. Ella, non so se spinto dall'ottimo Necchi (colui che l'ha spinto alla conversione) o se per resipiscenza tutta propria del male procuratomi, oppure per opportunità, afferrò l'occasione per farmi invitare a pubblicare le mie conferenze, di più, a invitarmi a fondare una Rivista di Pedagogia, della quale sarei stato il direttore.
Le avevo tutto perdonato, come tutto Le perdono anche oggi; ma non ero più disposto a mettermi in nessuna cosa con Lei, certo di andare incontro ad altre amarezze. L'esperienza del 1908 1909 – che m'aveva adatto conoscere il Suo vero carattere – m'aveva pure reso ora più accorto. Codesto mio atteggiamento dimostra chiaramente quanto fossero ALTERATI I MIEI SENTIMENTI, ancora dopo circa te anni. Il perdonare non implica la dabbenaggine…
"Le visibilissime differenze – aggiunse, passando alla parte fisico somatica: di cui è maestro – erano tali da non potersi ASSOLUTAMENTE ammettere come effetto del tempo trascorso, di malattie, di ingrassamento: lo Smemorato è quel che si chiama un "Ventrone", un "Pletorico". Quanto ad uno stato patologico del ricoverato, notò subito l'assenza dei sintomi tipici, così dal punto di vista fisico come da quello psichico. In realtà il supposto stato morboso non è mai stato definito da alcuno. Nessuna diagnosi è mai stata fatta". – Passi per pletorico; ma "VENTRONE", non Le sembra che, a parte il vocabolo da subura, sia un'evidente esagerazione e deformazione della verità?
Ella ha però voluto presentarmi al pubblico come mi presentò la Questura di Torino con quella famosa fotografia presami durante l'istruttoria, dove io risulto – dato che si pose la macchina in posizione… anormale per farmi risultare più grasso – dove io risulto un pacifico… mercante di buoi, un… VENTRONE. Ma vivaDio, l'originale è ancora vivo!
Il di Lei apprezzamento: "Non ha nulla di Canella", dimostra che Ella non aveva più nel ricordo la mia figura. Ciò non è logico, poiché i nostri rapporti, che NON furono così frequenti: dato che non NON CI VEDEVAMO SPESSO a Milano né altrove, e dato che furono rotti COMPLETAMENTE fin dal 1909, cessarono molto più presto di quel che Ella ha fatto apparire. Ella poi, non seppe nemmeno fare la comparazione tra la mia figura nel 1908-9 – nelle poche volte che ci siamo incontrati – con quelle di 18 anni dopo. O che voleva, che io per farLe piacere, fossi rimasto sempre uguale, colla sagoma giovanile, nonostante tutte le vicissitudini dolorose? Moralmente sì, anzi mi sembra che le stesse sventure mi abbiano reso l'anima più "lungilinea", cioè allungata verso il Cielo; ma fisicamente, ho dovuto seguire io pure la legge comune.
D'altronde, io non sono nemmeno quel pletorico che Ella presentò, e comunque, Ella non doveva ignorare, che solamente durante l'anno di degenza nel Manicomio di Collegno (Marzo 1926 Marzo 1927), io ero ingrassato di circa 20 Kg! Elemento patologico perciò, che La doveva indirizzare verso altre considerazioni. Esistono poi delle fotografie e dei testi, che possono dimostrare come io, dopo pochi mesi che aveva lasciata la direzione della mia cara Scuola Normale e le altre fatiche intellettuali (assieme a tanti oggetti amatissimi), per l'aria pura delle montagne, in prima linea di fronte, ero già assai ingrassato. Bastava poi che Ella si fosse degnato di aprire il mio libro di autodifesa (che non ebbe alcuna pretesa letteraria-filosofica: perché scritto in fretta tra un esame e un confronto, tra un viaggio e una confutazione, e per poterlo presentare ai giudici nel 1928-29), e quivi osservate diverse fotografie comparative.
Io voglio ammettere la assoluta buona fede in Lei. Non Le sembra però, di aver presunto troppo dalle Sue forze mnemoniche-intellettuali-scientifiche, mettendosi contro – proprio Lei che mi fu così poco vicino – a tutti i miei congiunti e a tenti miei amici – in questo caso molto più autorevoli di Lei, avendo essi trascorso molti anni vicino a me? Mettendosi contro mia moglie, che è pure mia cugina e che mi fu vicina fin dall'età di 10 anni: verso la quale Ella doveva sentire molta considerazione e stima, dato la condotta edificante costantemente tenuta, e per la forza morale e per l'equilibrio dimostrati davanti ai Medici del Manicomio che la sottoposero a dure prove, e per tante prove di alti sentimenti cristiani e civili? Mettendosi contro ai miei due fratelli, a mia sorella, a diversi altri parenti?
Un mio ex alunno, che ora risiede a S. Paolo, che mi fu prediletto tanto da farlo venire sovente a casa mia a Verona, ad un individuo che, recentemente, lo apostrofava dicendogli: "Ma Padre Gemelli non lo ha riconosciuto per Canella!", rispondeva: "Ma chi è P. Gemelli? Forse Padre Eterno? In questo caso credo di valere assai di più io!" Risposta scultorea, che io passo a Lei.
Quanto all'aver "subito notato l'assenza dei sintomi…", mi permetta osservare, che quel "SUBITO" dimostra che Ella non si è comportato secondo l'insegnamento dei migliori clinici, né secondo l'insegnamento di Cristo, e nemmeno secondo quello neo-scolastico.
Fece poi un'affermazione non corrispondente a verità circa la diagnosi e lo stato morboso. I Sanitari che mi tennero in osservazione – e quale osservazione! – per un anno, che SEGUIRONO attentamente TUTTE LE FASI della malattia e che mi CURARONO, Ella non li conta. Eppure questi, prima ancora che Ella si recasse a Collegno, avevano espresso limpidamente il loro pensiero. Rilevo alcune espressioni: "L'individuo fu tenuto legato per circa 15 giorni. Dopo a poco a poco andò migliorando. Nei primi 10-15 giorni che entrò nel Manicomio l'individuo era in stato di confusione, in uno stato di angoscia e congestionato" (e si può anche simulare la congestione? rilevo). "… quest'individuo si trovava in uno stato di profonda depressione associato a sintomi di confusione; mentale. Era insonne, nel rispondere si palesava rallentato ed inibito… Per nutrirlo si dovette ricorrere a mezzi coercitivi, non però alla sonda…; dopo il primo periodo di CURA aumentò di circa 10 Kg. Trattasi CERTAMENTE di psicopatico, nel quale attraverso il periodo di degenza, si è andato attenuando lo stato depressivo-confusionale iniziale. Lo Sconosciuto si è VOLONTARIAMENTE sottoposto alla prova della eterizzazione, ed a TUTTE le altre prove, a volte DOLOROSE, tentate su di lui; aderì VOLENTIERI alla proposta della pubblicazione della sua fotografia" "Fu ricoverato in condizioni PIETOSISSIME tali da non descriversi". "Aveva un'età di circa 50 anni, DIMAGRATO, depresso fisicamente e mentalmente…; barba lunga e incolta (il Bruneri, nella fotografia segnaletica, presa nello stesso giorno del mio ricovero nel Manicomio, risulta con la barba cortissima!).
E poi. "Il ricoverato che io curai era SENZA DUBBIO alcuno un MALATO. Fino al giorno che io lo ebbi in OSSERVAZIONE, esso fu REALMENTE un INFERMO nel quadro CLINICO. È DECISIVO il DECORSO di TUTTA la MALATTIA".
Non Le bastavano codeste oneste e mediate parole dei Sanitari che mi tennero in stretta osservazione un anno?
 
Ho finito.
Ella non ha il temperamento delle mezze misure. Ora, dopo la lettura della presente, due sole vie Le rimangono da scegliere: o continuare, nei miei confronti, a fare quel che fece finora e magari dire che il presente scritto fu inspirato e compilato da compiacenti parenti e amici (roba ormai vecchia per evitare la discussione sulla sostanza e sulle verità contenute) – ma Le assicuro che questa ipotesi non ho la convinzione che si avveri –, oppure Ella confesserà di essersi ingannato, di aver errato. Come S. Agostino, e nello stesso franco modo con cui Ella proclamò la Sua conversione al Cristianesimo e l'abbandono delle teorie materialistiche, proclamerà l'errore gravissimo in cui è caduto, e col quale contribuì a produrre un'infinità di amarezze, di patimenti, di conseguenze orribili a me e alla mia famiglia.
Scelga questa via, ed Ella sarà santo e sarà grande.
Si santifichi Padre Gemelli.
Nell'attesa della doverosa Sua ammenda, e certo che lo Spirito Santo, e anche il di Lei grande amico Ludovico Necchi La illumineranno, proclamo davanti a Dio e agli uomini che sono Giulio Canella.
 
Giulio Canella
 
Marzo 1935 – Rio de Janeiro
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