Il progetto di un asilo urbano per acuti. Parma e la questione manicomiale nel primo Novecento

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Quando nel 1873 Parma venne colpita da una nuova epidemia di colera, l’Amministrazione provinciale decise di trasferire in via provvisoria il manicomio nell’ex palazzo ducale di Colorno e nell’ex convento di San Domenico ad esso attiguo. La sistemazione temporanea divenne definitiva il 5 settembre 1877 su delibera del Consiglio provinciale. Da allora, per far fronte ai problemi strutturali del manicomio e per denunciarne le carenze, si susseguirono numerose commissioni, che proposero di volta in volta soluzioni più consone al progredire della scienza e della tecnica psichiatrica.
Il dibattito sulla realtà parmense rispecchiava le riflessioni critiche sul progetto di cura manicomiale avviate dalla psichiatria nazionale a partire dagli anni Settanta. A fine secolo, infatti, numerosi psichiatri italiani prendevano atto della crisi di credibilità scientifica delle istituzioni per alienati, viste come “fabbriche d’incurabili”. Gli istituti erano spesso sovraffollati e i posti disponibili venivano perlopiù occupati da malati cronici, divenuti tali all’interno dei manicomi stessi. Un altro problema ampiamente dibattuto riguardava la separazione della gestione manicomiale dai luoghi di studio delle malattie mentali, come le cliniche e i laboratori scientifici universitari. Di fronte alla frattura tra il piano scientifico e il piano istituzionale, emerse come tentativo di soluzione la proposta di realizzare manicomi urbani per malati acuti. Data l’impossibilità di trasformare i vecchi manicomi in ospedali, sarebbe stato meglio costruire ospedali per alienati annessi alle cliniche universitarie. I vecchi manicomi invece avrebbero conservato una funzione puramente custodialistica per i malati cronici, riprendendo l’idea di occuparli al lavoro nelle colonie agricole, disgiunta tuttavia da qualsiasi obiettivo terapeutico.
Tra i sostenitori dell’istituzione di comparti psichiatrici negli ospedali comuni, vi fu Giulio Cesare Ferrari (1869-1932), che in un articolo pubblicato nella Rivista sperimentale di freniatria e medicina legale del 1896 riconosceva che le psicosi acute erano meglio curate insieme alle altre malattie acute, mentre la presenza di comparti psichiatrici negli ospedali comuni garantiva un’osservazione più attenta e metodi di cura più innovativi.
Proprio nell’Archivio Ferrari (fascicolo Manicomio di Colorno) sono conservati documenti che testimoniano la presenza, nella realtà parmense, di una riflessione critica sui limiti dell’istituzione manicomiale e su una sua possibile riforma.
In particolare, in due dattiloscritti degli anni Venti senza firma, intitolati rispettivamente “Cenno storico sommario dei principali giudizi sulla riducibilità ad ospedale del Manicomio di Colorno” (s.d., post 1920) e “Pro memoria per la questione manicomiale (Cronistoria dei fatti più recenti)” (s.d., 1925 circa) vengono enumerati i vari pareri sfavorevoli, susseguitisi dal 1865 in avanti, circa l’adeguatezza dei fabbricati di Colorno a svolgere la funzione manicomiale. A partire dal 1913 venne proposta, su indicazione del direttore Ugolotti, la realizzazione di un ospedale urbano per acuti, per costruire il quale l’Amministrazione provinciale acquistò un terreno della Villa Negrona del Principe di Soragna fuori Porta Farini.
Nell’opuscolo a stampa dell’Amministrazione provinciale di Parma, dal titolo Il riordinamento generale del Manicomio di Colorno (1910-1922). Relazione del direttore Dott. Prof. Ferdinando Ugolotti (Parma, 1922), il direttore riconosceva l’impossibilità di trasformare il Manicomio di Colorno in un ospedale di cura per malati di mente. La realtà parmense poteva svolgere solamente la funzione di ricovero per cronici inguaribili. Nella relazione venivano anche enumerati i miglioramenti strutturali e organizzativi apportati nel manicomio e si citava l’istituzione di una colonia agricola, ricavata da un orto nei pressi dell’istituto e dall’affitto di un piccolo podere poco distante. Inoltre, per i cronici tranquilli era stata avviata in modo sperimentale l’assistenza famigliare. Nella sua conclusione Ugolotti riconosceva come il Manicomio di Colorno fosse così diventato un buon ricovero per i malati inguaribili, «che non hanno bisogno di assistenza e cure specifiche, ma hanno solamente bisogno di semplice mantenimento e cura manicomiale». D’altra parte, il direttore lamentava la promiscuità ancora esistente tra cronici inguaribili e acuti guaribili, estremamente dannosa per i secondi, costretti a un trattamento indifferenziato a causa dei limiti della struttura stessa. Ugolotti riproponeva quindi, nel 1922, la costruzione di un ospedale urbano per acuti come soluzione al problema manicomiale.
Nel 1925 venne avanzata, sempre su indicazione del direttore, una nuova proposta di soluzione. Considerato il trasferimento delle cliniche generali di Parma dall’edificio di via Imbriani al nuovo ospedale civile fuori dalla barriera D’Azeglio, si ipotizzò il riutilizzo del complesso svuotato come ospedale psichiatrico per l’accettazione, l’osservazione e la cura degli ammalati acuti. Nel frattempo, il terreno già acquistato a Villa Negrona venne venduto e le soluzioni proposte nel corso degli anni non vennero mai attuate.
Nel 1926, infatti, fu nominata una Sottocommissione di studio sull’assistenza agli alienati nella Provincia di Parma, costituita dal dottor Ferrante Della Valle, dall’ingegnere Luigi Pistoni e dallo stesso Giulio Cesare Ferrari, direttore dell’Ospedale psichiatrico provinciale Roncati di Bologna. La relazione della Sottocommissione, conservata nell’archivio di Ferrari, riguardava le visite effettuate il 1° febbraio 1926 al Manicomio di Colorno e il 15 marzo 1926 alla Clinica medica universitaria di Parma, indicata come possibile sede di una succursale urbana del manicomio. La Sottocommissione giudicava le condizioni del manicomio parmense del tutto insufficienti. La struttura, infatti, presentava «un infinito numero di locali, tutti occupati da letti, o affollati da alienati, i quali vi sono ammassati come un gregge nell’ovile». L’inadeguatezza degli spazi, gelati d’inverno e torridi d’estate, rendeva il servizio di vigilanza poco efficace, tanto da portare i commissari ad affermare che «se non succedono a Colorno continue disgrazie […] il merito particolare si deve attribuirlo alla Provvidenza e forse anche alla fondamentale bontà d’animo di quei ricoverati». Le condizioni degradanti nelle quali vivevano i pazienti rendevano plausibile un impoverimento mentale causato dal manicomio stesso. Lo stato di abbandono in cui versavano sia il manicomio che i medici che vi lavoravano veniva imputato all’Amministrazione provinciale, rea di aver costantemente rimandato le soluzioni concrete al problema manicomiale. L’esito di questo stato di cose veniva definito tragico, sia per le finanze provinciali sia per l’incurabilità ai cui erano stati ridotti ricoverati che, in condizioni diverse, dopo pochi mesi avrebbero potuto essere dimessi. Per risolvere i problemi strutturali e di sovraffollamento del manicomio parmense, la Sottocommissione si riunì il 15 marzo 1926 nei locali della clinica medica universitaria. In questa circostanza fu valutato il suo possibile utilizzo come asilo urbano per circa duecento malati di mente acuti e come sede della Clinica neurologico-psichiatrica. Circa la prima possibilità, la Sottocommissione espresse parere negativo sull’adeguatezza dei locali. La costruzione ex novo di un asilo urbano per acuti appariva come l’unica soluzione possibile alla questione manicomiale. Considerati tuttavia i tempi e le spese necessari, i commissari proposero come ipotesi temporanea la creazione di un servizio di accettazione per acuti presso la locale Clinica neuropsichiatrica o, in alternativa, presso l’Ospedale psichiatrico di Reggio Emilia.
Successivamente, nel 1927, venne istituita a Parma la Regia Clinica neuropsichiatrica, grazie alla quale venne risolto il problema dell’insegnamento della neuropsichiatria, ma non quello dell’assistenza ai malati.
Come si accennava, il dibattito sull’istituzione di un asilo urbano per acuti, iniziato nel 1913 e proseguito nel corso degli anni, non trovò mai una reale applicazione. Così, le condizioni degradanti del manicomio parmense si protrassero nel tempo, divenendo il punto focale della lotta antipsichiatrica condotta sul territorio a partire dagli anni Sessanta.
 
Paola Panciroli
11/02/2021
 

Bibliografia

De Peri, F. (1984). Il medico e il folle: istituzione psichiatrica, sapere scientifico e pensiero medico fra Otto e Novecento. In F. Della Peruta (a cura di), Storia d'Italia, Annali 7, Malattia e Medicina (pp. 1057-1140). Torino: Einaudi.
Ferrari, G. C. (1896). Note di tecnica manicomiale. Stabilimenti per malati di mente acuti e cronici. Rivista sperimentale di freniatria e medicina legale, 873.
Moreni, M. (2004). Storia dell’Ospedale Psichiatrico di Colorno. In L. Contegiacomo, E. Toniolo (a cura di), L’alienazione mentale nella memoria storica e nelle politiche sociali. “Chisà che metira fuori un calchedun da sto manicomio” (pp. 67-70). Rovigo: Minelliana.
Tonoli, G. (1899). Dimissioni precoci di alienati. Rivista sperimentale di freniatria e medicina legale, 619.
 

Fonti archivistiche

Aspi Archivio storico della psicologia italiana, Università degli studi di Milano-Bicocca, Archivio Giulio Cesare Ferrari, b. 42, fasc. 12 e b. 55, fasc. 27.
 

Fonte iconografica

Aspi Archivio storico della psicologia italiana, Università degli studi di Milano-Bicocca, Archivio Giulio Cesare Ferrari, b. 42, fasc. 12.
 
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