Con Dario Romano a Torino dal 1991 al 1997 (Cesare Kaneklin)

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Nel 1991 Dario Romano, preside della Facoltà di psicologia dell’Università degli studi di Torino, mi aveva proposto di insegnare in quel corso di laurea. Ne avevamo parlato più volte in alcuni lunghi e piacevoli incontri. Alla fine mi aveva convinto grazie ai suoi progetti volti a inserire più decisamente la Facoltà e la formazione dei futuri psicologi nel tessuto culturale e professionale della psicologia piemontese.
L’ipotesi era nuova e interessante, a fronte della cultura tradizionale universitaria generalmente isolata e lontana dai contesti sociali e professionali: aprire la Facoltà ad una effettiva collaborazione con la città e con la Regione, con le strutture socio-sanitarie e con gli psicologi che vi operavano costituiva una sfida ed una sperimentazione affascinante che mi sono sentito di condividere. Per me, milanese ben radicato professionalmente ed accademicamente nella mia città, significava passare almeno tre giorni alla settimana a Torino. D’altra parte progettare e sperimentare una nuova organizzazione e nuovi dispositivi volti a ripensare il modello formativo dei giovani psicologi futuri, cercando contemporaneamente di aprire nuovi spazi per il loro inserimento professionale mi sembrava un’ipotesi meritoria ed allettante. Non mi sarei certo trasferito in una città a me quasi sconosciuta solo per insegnare. È cominciata così una intensa collaborazione con Dario che si è tradotta in una full immersion in una attività che ci vedeva insieme durante il giorno nel Dipartimento di psicologia di Via Po e, dalle 18 in poi, ospiti del retro di una libreria di Corso San Maurizio o a cena nella storica Trattoria della Betty in via Bogino, oppure impegnati in iniziative culturali organizzate in città. Lo scopo condiviso di questo percorso iniziale è stato quello di coinvolgere e consolidare relazioni in un gruppo sempre più ampio di colleghi, professionisti che almeno una volta alla settimana venivano a Torino dalle diverse province del Piemonte per costruire assieme un progetto comune di sviluppo della psicologia che fosse localmente situato e per programmare attività di formazione degli studenti. In questa prima fase ispirata (anni 1992-1993) gli oggetti di maggior investimento sono stati: la progettazione e sperimentazione di nuovi dispositivi formativi ad uso di una Facoltà che non voleva limitarsi al solo insegnamento della psicologia; la costruzione dell’Ordine regionale degli psicologi di nuova istituzione; la costituzione, in collaborazione con l’Ente regionale del Piemonte, di servizi di psicologia da posizionare in staff alle Direzioni generali di tutte le aziende sanitarie locali (esperienza pilota in Italia); il piano di riposizionamento lavorativo degli psicologi e della psicologia piemontese. Così, attraverso uno sforzo di memoria del passato e di valorizzazione delle esperienze policentriche dei diversi attori coinvolti, di invenzione ed edificazione del presente, di sforzo di anticipazione dell’avvenire, si è istituito un circolo virtuoso che ha dato i suoi frutti anche negli anni successivi. Nel gruppo di colleghi che nel tempo si è costituito attorno agli obiettivi sopra menzionati, Dario è stato un maestro riconosciuto per la sua levatura ad un tempo scientifica ed umana: persona capace di coniugare le ricchezze della tradizione psicologica con la necessità di installarsi nel presente per alimentare il gusto di anticipare l’avvenire con un poco di utopia. La ricerca di riposizionamento dell’intervento psicologico aveva aperto una prima importante pista di lavoro circa il rapporto tra psicologia e salute/malattia. In collaborazione anche con l’Università di Roma e il professor Mario Bertini, si era avviata la messa in discussione dell’accezione riduttiva della psicologia clinica come sinonimo di attività psicoterapeutica. Per ricordare sinteticamente l’operatività degli anni successivi in questo campo, vorrei qui ricostruire le ipotesi di partenza relative allo sviluppo della sanità in Italia, e l’esperienza della Scuola di psicologia della salute di Veruno (Novara). Le quattro ipotesi di partenza!
Prima ipotesi: i tempi ed i mezzi messi a disposizione degli ospedali, dei servizi sanitari saranno sempre più limitati. Al di là dei discorsi ufficiali di chi governa che presentano la sanità come la priorità ineludibile, nelle realtà sanitarie si comincia a intuire come l’economia sia la preoccupazione principale. I problemi di redditività e di performance generano il culto dell’urgenza, del fare in fretta, che rischia di istituirsi come stile di funzionamento organizzativo e di rapporto con i pazienti.
Seconda ipotesi: “fretta” e tecniche sempre più sofisticate di diagnosi e cura allontanano i medici dai malati ed anche i malati dalle loro malattie. Lo sviluppo delle specializzazioni, le invenzioni tecniche (talune straordinarie e capaci di salvare vite umane), stanno influenzando la cultura medica e portando molti medici a dimenticare che essi hanno davanti una persona intera costituita da un corpo, da una mente e da un contesto entro cui portare le loro sofferenze. I pazienti non portano una malattia, ma sono malati entro la propria pelle: equivocare sulla questione significa non cogliere il costante aumento di disturbi psicosomatici. Il progressivo cambiamento culturale fin qui descritto naturalmente ha influenzato nel tempo anche i pazienti. Essi stanno diventando portatori di un corpo che attende di essere riparato senza aver bisogno di essere investito mentalmente e psicologicamente. In modo circolare l’atteggiamento meccanicistico ed infantile del paziente di rapportarsi col proprio corpo sospinge il medico nella sfera della sacralizzazione. In ultima istanza questa seconda ipotesi ci porta a pensare che quanto più il paziente sarà coinvolto e coautore del trattamento sanitario tanto più l’intervento clinico risulterà efficace.
Terza ipotesi: la salute diventerà una preoccupazione centrale per tutti. Dopo la seconda guerra mondiale lo sviluppo dell’industria farmaceutica, la specializzazione delle tecniche chirurgiche, il culto crescente della performance ha migliorato di molto la qualità e la speranza di vita. Nei paesi sviluppati ciò ha accompagnato la nascita di un nuovo rapporto con la salute: in effetti la buona salute comincia a confondersi con la sanità di ciascun organo, che diventa una pretesa ed un’esigenza condivisa da tutti e che spinge lo Stato a diventare il garante della salute (così intesa) della popolazione. L’ideale collettivo circa il corpo diventa quello della bellezza e dell’eterna giovinezza fino alla morte.
Quarta ipotesi: …ma viviamo in un mondo sempre più affollato, rischioso e pericoloso. Lungo l’arco del XX secolo, vivendo più a lungo, potendo mantenersi più giovani e più dinamici, si sono prese le distanze dalla paura della malattia e della morte. D’altra parte dal 1945 ad oggi la società è diventata più rischiosa giorno per giorno. La violenza diretta è dappertutto: quella legata al culto dello sport, della performance; quella legata alla sessualità; quella connessa all’affermazione di una virilità spesso messa in discussione; …le rapine a mano armata. Vi è poi una violenza più sottile e più insidiosa che cresce tutti i giorni: la violenza psichica che diventa multiforme (vite lavorative stressanti, paura di non trovare o perdere il lavoro, pressioni al conformismo, aumento della competizione e della rivalità, livore urbano) forme diverse ma che hanno in comune la stessa causa: l’intolleranza dell’alterità della persona e la tendenza a negarla o a percepirla come uno strumento del proprio benessere. Se si aggiunge a questo quadro già forte la paura di eventuali catastrofi (ad esempio l’esplosione di una centrale nucleare o l’aumento dei tassi di inquinamento) possiamo capire che ci si sta rendendo conto di vivere in un universo non controllabile. Oggi queste quattro ipotesi si sono evidenziate in modo sempre più marcato. Allora nel 1994 esse hanno costituito un punto di avvio per la costituzione, in collaborazione con la Fondazione Maugeri, di una Scuola-laboratorio per lo sviluppo di una psicologia della salute che non si esaurisse nella relazione duale col paziente ma che si aprisse a nuove ipotesi culturali ed organizzative. Alla base stava la convinzione, scientificamente fondata, ma da testare anche sul campo circa il fatto che in ogni Servizio sanitario l’azione di cura si svolge non solo attraverso l’opera dei professionisti, ma anche attraverso il modo in cui essi funzionano e sono organizzati, ed anche attraverso il coinvolgimento attivo degli utenti e/o della comunità locale. Sul campo in alcuni ospedali, nei servizi di psicologia delle ASL che si collegano alla Scuola si riesce a vedere come al di là dei singoli operatori, esista un vero e proprio “sistema curante” che sviluppa, in base alla qualità del suo funzionamento, effetti terapeutici e/o patogeni. In altre parole potremmo dire che organizzazioni frammentate e scisse hanno implicazioni negative sul processo terapeutico. Si apre quindi per lo psicologo la possibilità di prepararsi e formarsi non solo per progettare interventi a livello duale ma anche a livello micro sociale, dove l’utente non è un oggetto ma entra nel gioco delle relazioni intersoggettive. L’impegno di Dario non si è limitato a sostenere ed integrare il processo che sinteticamente ho cercato di descrivere, ma per la sua credibilità ha potuto confrontare le idee generate e le esperienze realizzate in un dibattito sul futuro della psicologia e degli psicologi sia a livello nazionale che internazionale. Come si vede il lungo percorso di ricerca iniziato con il problema della formazione di base degli psicologi ha generato un nuovo paradigma, che ha costretto tutti gli attori coinvolti (docenti, studenti, professionisti, formatori) a mettere in discussione le loro concezioni “di apprendimento, di approcci e metodi della clinica psicologica, di rapporto tra la ricerca e l’intervento, di organizzazione”.
 
Cesare Kaneklin
20/06/2013
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