Istituto psichiatrico femminile di Codogno

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L’Istituto psichiatrico femminile per “croniche alienate tranquille” fu aperto nel 1930 a Codogno (Lodi), come succursale del sempre più affollato Ospedale psichiatrico provinciale di Milano in Mombello. Autorizzato provvisoriamente dalla Prefettura di Milano all’inizio del 1931, ottenne l’autorizzazione ufficiale nel 1934, per un limite massimo di 290 posti letto, da collocare nelle due palazzine che si affacciavano sul cortile della casa di riposo di proprietà delle Opere pie codognesi.
Nel periodo bellico e postbellico, il numero dei posti letto disponibili fu ampiamente superato, rendendo necessaria la costruzione di nuovi plessi in aggiunta ai precedenti. Dal 1960 al 1969, mentre si realizzava il programma di rinnovamento, mirante alla sostituzione delle vecchie strutture edilizie con altre che garantissero maggiore funzionalità ed efficienza, il continuo e graduale aumento dei posti letto raggiunse il numero di 550. Parallelamente mutò il quadro tipologico delle ricoverate, in origine costituito da alienate croniche tranquille, fino a configurarsi al pari di quello degli altri ospedali psichiatrici, comprendendo quasi tutte le forme psicopatologiche. Per questi motivi si dovette provvedere a dotare l’Istituto di personale medico adeguato, ossia di un direttore sanitario, di sei medici di reparto, di quattro consulenti e di una psicologa.
Si trattò dell’innovazione più importante dell’Istituto, avviata nel 1970 sul piano tecnico assistenziale e ispirata dalla volontà operativa di elevarne qualitativamente i servizi. Anche per questo si procedette a demolire la vecchia struttura, che nonostante le molteplici innovazioni edilizie conservava la caratteristica custodialistica, ristrutturando l’istituto come un ospedale, ossia suddividendolo in sette reparti articolati come unità funzionalmente autonome e logisticamente distinte, dotati ciascuno di un ambulatorio medico, di un locale per il personale, di aree di soggiorno per le malate. Quindi, finalmente le pazienti furono assegnate ai reparti secondo criteri di affinità diagnostica e comportamentale.
La nuova struttura contava 570 posti letto, distribuiti in sette reparti e in due dipendenze per recuperi e riabilitazioni di malati. Fu allora possibile intervenire specificamente per affrontare cure intensive, demenze in fase terminale, schizofrenie recuperabili, psicosi organiche in stato di parziale autonomia, oligofrenie di grave e medio grado, schizofrenie, psicosi inveterate.
Nelle dipendenze, costituite dalla villetta Casa Madre Giacinta e da tre appartamenti per ospiti, fu inoltre possibile avviare la pratica della riabilitazione psicosociale.
Questa nuova strutturazione dell’Istituto portò a un importante miglioramento delle cure mediche e a un aumento delle dimissioni delle ricoverate.
Oltre all’apertura di laboratori di analisi, di radiologia, di neurologia, di psicologia, odontoiatrici e ginecologici, furono attivati servizi parapsichiatrici e socio familiari diretti da un’assistente sociale, in modo da garantire i rapporti tra i malati e i loro familiari; servizi socio terapeutici per promuovere tutte le iniziative utili a far socializzare le ospiti mantenendole attive, in particolare attraverso l’organizzazione di laboratori di meccanica semplice e articolata, in relazione alle capacità delle ricoverate, e laboratori artigianali per piccole produzioni di imbustamento, per la produzione di tappeti e di tovaglie e altri molteplici servizi; le lavoratrici percepivano uno stipendio settimanale.
In una nuova sala ricreativa furono predisposte attività ludiche, scuole di ballo e di canto, e attività di apprendimento preelementare ed elementare.
Fiore all’occhiello del nuovo istituto fu lo sperimentale reparto oligofreniche, in cui le pazienti di medio grado ebbero la possibilità di frequentare una scuola elementare speciale, mentre le ricoverate di alto grado ebbero a disposizione attività di apprendimento preelementare e attività di psicosensorialità e psicomotricità.
Nella villetta Casa Madre Giacinta furono collocate quattordici pazienti per le quali si prevedeva la possibilità di un ritorno in famiglia. Nel 1974, infatti, dieci di loro furono reinserite socialmente.
Furono realizzati anche tre appartamenti, predisposti per accogliere da quattro a sei persone, al fine di favorire il distacco dei pazienti da quei familiari che si rivelavano causa dei loro disagi.
Dagli anni Settanta del Novecento e fino al 1993, fu direttore sanitario dell’istituto Luciano Borsotti, allievo e amico di Franco Basaglia, di cui condivideva le iniziative rivoluzionarie per la chiusura dei manicomi e il recupero dei pazienti nel contesto sociale. In questa prospettiva, nel 1978 egli fece aprire nell’istituto la Casa Albergo Taormina, una residenza caratterizzata da reparti costituiti da piccole camere e sale da pranzo che ricordavano gli ambienti familiari. Promosse inoltre un nuovo approccio degli infermieri nei confronti dei pazienti, caratterizzato dal sorriso, e favorì l’apertura dell’istituto all’esterno, organizzando serate danzanti, gite in località turistiche e momenti di festa in cui i cittadini potevano incontrare i ricoverati.
Per appoggiare il suo operato nacque l’Associazione dei volontari per la psichiatria, che operò fino alla definitiva chiusura dell’Istituto psichiatrico, avvenuta in adempimento alla riforma Basaglia nel 1981.
 
Marco Giovanni Migliorini
06/09/2024
 

Bibliografia

Migliorini, M.G., (2023). La Fondazione Opere Pie Riunite Onlus di Codogno. 600 anni di solidarietà attraverso i documenti d'archivio. Crema: Tipografia Trezzi.
 

Fonti archivistiche

Archivio dell'Istituto psichiatrico femminile di Codogno, bb. 1-2.
 

Fonte iconografica

Migliorini, M.G., (2023). La Fondazione Opere Pie Riunite Onlus di Codogno. 600 anni di solidarietà attraverso i documenti d'archivio. Crema: Tipografia Trezzi.
 
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