Il matricida. La perizia psichiatrica su Renzo Pettine

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Nel 1926 il direttore dell’Ospedale psichiatrico di Milano in Mombello, Giuseppe Antonini, fu nominato perito della difesa nel processo intentato contro Renzo Pettine, un caso di cronaca nera che creò molto scalpore nell’opinione pubblica del tempo.
A soli diciassette anni, Pettine era stato accusato di aver ucciso la madre, Erminia Ferrara, con un colpo di rivoltella, e di averne occultato il cadavere in un baule della camera da letto, nell’appartamento milanese di Corso Buenos Aires 48 in cui viveva.
La vicenda fu molto chiacchierata, sia per i dettagli macabri che la caratterizzavano, sia per la posizione altolocata della famiglia. La vittima era infatti conosciuta come “La Contessa del Viminale” per le sue frequentazioni con esponenti di primo piano del fascismo, tra cui il sindacalista Cesare Rossi e il segretario nazionale del partito Roberto Farinacci, che sembravano metterla a conoscenza dei grandi segreti di Stato.
La donna sparì l’11 febbraio 1926; due giorni dopo, Renzo Pettine disse ai portinai che era partita e che lui sarebbe andato a vivere dal padre Giovanni, un famoso cineasta separato dalla moglie.
Il padre tuttavia non lo vide, e nei mesi successivi scoprì che il figlio non frequentava più la scuola e dilapidava i soldi tra armi, droghe, prostitute e sale da gioco.
Il 29 maggio 1926, Renzo Pettine svuotò la cassaforte del padre e fece perdere le proprie tracce. Il genitore iniziò allora a fare delle ronde notturne intorno all’appartamento di Corso Buenos Aires, cercando di intercettare il ragazzo. Una sera, notando che le finestre non erano chiuse come al solito, forzò la serratura ed entrò. L’olezzo che lo colpì gli fece capire che la situazione era più grave del previsto: la polizia trovò il corpo della donna nel baule, in uno stato avanzato di decomposizione.
Tutti si chiesero dove fosse il figlio e come avesse fatto a vivere in quell’appartamento per mesi organizzando feste, invitando persone e conducendo una vita normale con il cadavere della madre in casa.
Renzo Pettine fu trovato il 10 giugno 1926 a Desenzano del Garda. Per sfuggire alla cattura si finse un hidalgo giunto in Italia per motivi di studio. Arrestato e perquisito, gli furono trovati in tasca, oltre a una rivoltella, una tessera postale a suo nome, con fotografia, e l’orologio d’oro che aveva sottratto al padre. Dopo tre ore di interrogatorio finì per confessare che era stato lui a uccidere la madre, dopo averla trovata in casa con due sconosciuti, uno dei quali seminudo. Disse di aver puntato l’arma contro gli amanti della madre, ma di aver colpito erroneamente lei; di essere stato picchiato e cacciato fuori di casa dai due uomini, che lo avevano rassicurato sul fatto che la madre era stata solo leggermente ferita, e di avere poi scoperto solo dai giornali che era morta.
L’aver vendicato l’onore del padre e l’aver assunto la parte del giustiziere per l’indegna condotta della madre fu poi un concetto ricorrente anche negli interrogatori successivi, dai quali emersero tuttavia non solo nuove versioni, ma anche nuovi dettagli che indussero il giudice istruttore a disporre una perizia psichiatrica, per capire se l’imputato fosse in grado di intendere e di volere al momento del reato.
L’incarico di primo perito fu conferito a Eugenio Bravetta, illustre alienista e direttore del manicomio di Novara, mentre il secondo incarico fu conferito, come si diceva, a Giuseppe Antonini, direttore del manicomio di Mombello, dove Renzo Pettine fu inviato in osservazione.
Arrivato a Mombello, il diciassettenne fu collocato in una sezione speciale del Reparto chiuso per gli inquieti e i prosciolti pericolosi, dove per misura precauzionale fu messo a letto in infermeria. Antonini precisò nella perizia (conservata nel suo archivio): «si presenta depresso, quasi sempre in stato di stupore, non fa alcuna resistenza, non esprime alcun desiderio, non manifesta alcuna curiosità, non chiede nulla».
Per parecchi giorni non parlò spontaneamente né con Antonini, né con il personale sanitario: rivolse soltanto qualche parola disinteressata al suo vicino di letto, mostrando indifferenza anche quando medici e infermieri entravano nella sua stanza; non diede mai segno di interesse o di preoccupazione, ma quando pensava di non essere osservato, seguiva attentamente i movimenti degli specialisti con la coda dell’occhio, senza farsi sfuggire alcuna parola di ciò che dicevano agli altri ricoverati.
Quando furono esclusi segni di dissimulazione che facessero presagire tendenze autolesive e impulsi improvvisi, Renzo Pettine fu autorizzato a scendere in cortile per passeggiare e intrattenersi con gli altri internati. Qui gli psichiatri si stupirono nel vederlo «entrare in dimestichezza quasi gioconda» con i ricoverati più giovani, «parlar loro spigliatamente, passeggiare libero coi movimenti decisi e sicuri», ritrovando quindi «la sua personalità di ragazzo che ha bisogno di muoversi, di parlare, di vivere».
Un atteggiamento in netto contrasto – a dire di Antonini – con la rigidità fisica, la fisionomia dolorosamente contratta, il capo costantemente reclinato in avanti e piegato lateralmente, e lo sguardo basso e sfuggente che teneva quando gli specialisti gli ponevano delle domande, in particolare sul delitto; in quei momenti dava infatti l’impressione di non capire appieno il significato delle domande stesse e si mostrava insensibile a ogni input esterno, tanto da sembrare catatonico, alternando risposte monosillabiche a smorfie di sorriso. Era inoltre restio a spiegare il significato dei disegni di cui riempiva interi quaderni: si trattava di abbozzi per la sua idea di costituire un nuovo partito politico militare, per il quale progettava uniformi, scudi e mezzi corazzati. Utilizzava anche un alfabeto da lui inventato «pieno di simboli e geroglifici», con figure che gli servivano come linguaggio iconografico: ad esempio due mele significavano «impossibile venire all’armi», tre pezzi di cotognata «impossibile vederti», due pere «impossibile venire malato», e così via. Antonini nella perizia considerava questo ideografismo come uno dei sintomi più caratteristici della «ideologia fantastica paranoidale» di Pettine, spingendolo a produrre in maniera automatica «concetti allegorici deliranti».
L’anno trascorso dal giovane in osservazione a Mombello consentì ad Antonini di escludere definitivamente l’ipotesi della simulazione e di concludere che nel momento in cui aveva commesso il reato Renzo Pettine fosse «in tale stato di infermità di mente da togliergli la coscienza e la libertà degli atti».
Lo psichiatra lo descriveva nella perizia come un «abulico» allo stesso tempo «iperbolico»: «inerte, irresoluto, pigro, ozioso in talune manifestazioni della sua vita sociale, di relazione, ha invece una iperattività nella vita sessuale, negli impulsi episodicamente insorgenti come nella fuga a Desenzano, nel determinismo del furto al padre, nell’ideologia fantastica, nell’assenza di critica, nella disarmonia della condotta, nell’esagerata tendenza alla imitazione del mondo della mala vita elegante dei frequentatori dei caffè, tabarins, dei cinematografi, nell’accettare i consigli di compagni scaltriti e immorali».
Il matricida, secondo Antonini, era affetto da una «demenza paranoide» che si era sviluppata sulla «base degenerativa costituzionale schizofrenica e preesistente al momento dei fatti di imputazione». Dunque vi era un carattere ereditario nella sua condizione patologica: la madre veniva infatti definita come anormale e immorale, figlia di un alcolizzato violento e sposata a Giovanni Pettine solo dopo aver tentato il suicidio per il timore di essere da lui abbandonata.
L’immoralità nel giovane era quindi costituzionale e gli aveva permesso di continuare a vivere in quell’appartamento invitando prostitute pagate con i vestiti della madre senza provare rimorso e dimostrando anzi una freddezza emozionale che ricordava quella del delinquente nato lombrosiano.
Secondo Antonini, tutto questo lo rendeva un individuo socialmente pericoloso, da internare in un istituto non carcerario ma manicomiale.
A nulla però valsero le sue conclusioni peritali: il procuratore generale Giustino Froia contestò infatti la tesi di infermità mentale e lo accusò di simulazione: «abile simulatore in possesso della totale capacità mentale al momento della commissione del matricidio, fa l’indifferente, parla e ragiona finché si ignora il delitto e la sua conseguente responsabilità; ed in questo periodo dissimula con accorgimento ed abilità ogni indizio che valga a svelare il mistero e a comprometterlo; e quando si vede perduto pensa e sa che ogni risorsa difensiva sulla materialità del reato è vana e assurda, diviene silenzioso per tentare l’estrema difesa con la simulazione della pazzia» (Pacitti, 2021).
La suprema Corte sposò la tesi del procuratore generale, ignorò la perizia degli alienisti e dichiarò Renzo Pettine colpevole dell’uccisione della madre, condannandolo a 15 anni e 6 giorni di reclusione (pena moderata a causa della sua minore età). La sentenza fu accolta tra applausi e fischi, e la vicenda continuò a far parlare ancora a lungo.
Lo scrittore Carlo Emilio Gadda le dedicò addirittura una novella (Dejanira Classis, 1928) e si espresse con queste parole a favore dell’infermità mentale del matricida: «È noto che i giurati hanno ritenuto il giovane sano di mente, gli hanno negato persino la semi-infermità […]. Il giovane compì azioni mostruose, quali il fatto di continuare a “faire la noce” nell’appartamento, ove la madre morta putrefaceva in un baule. Condusse in casa ragazze e se le è fottute per notti intere nel letto materno, mentre il lezzo della decomposizione appestava la casa. Ma questa non è appunto un’orrida, atroce, mostruosa demenza? Bisogna parlare di lui come di un essere fuori dell’umanità e della ragione. Così dicasi del mutismo, della freddezza, ecc. rilevati poi» (Lo Marco, 2015).
Pettine scontò comunque alla fine una pena di soli 10 anni: liberato nel 1936, si trasferì a Isernia dove vivevano il padre e la sorella.
Nel 1958, all’età di cinquant’anni, sposò la ventiduenne Carolina Marinelli, che però morì improvvisamente l’anno successivo per una non meglio identificata malattia. Sin da subito cominciarono a circolare voci che ipotizzavano altri scenari: Renzo Pettine non riuscì mai a scrollarsi di dosso l’etichetta di “matricida” e morì otto anni dopo, nel 1966.

Manuela Roman
17/11/2021
 

Bibliografia

Accorsi, A., Ferro, D. (2014). I 100 delitti di Milano. Roma: Newton Compton.
Gadda, C.E. (1971). Novella seconda. Milano: Garzanti.
Lo Marco, L. (2015). Il pasticciaccio: Gadda e la filosofia. Lecce: Youcanprint.
Pacitti, C. (2021). Il matricida. Processo Pettine. Lecce: Youcanprint.
Rodogna, A. (2021). Un delitto imperfetto. Il delitto Pettine. Marsciano: Bertoni.

Fonti archivistiche

Aspi Archivio storico della psicologia italiana, Università degli studi di Milano-Bicocca, Archivio Giuseppe Antonini, b. 7, fasc. 5, Perizia Pettine Renzo.
 

Fonte iconografica

Archivio Giuseppe Antonini, b. 7, fasc. 5, Perizia Pettine Renzo.
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